martedì 26 novembre 2019

PUT ALL THE BLAME ON THE ONE

Si legge nell’”Allenamento Mentale in Sette Punti” di Geshe Chekawa (1102–1176), manuale in versi di istruzioni Kadampa per progredire spiritualmente, un verso sibillino:
“Put all the blame on the one.”
Nella versione italiana del commentario di Dilgo Khyentse Rinpoche allo stesso testo (Intrepida Compassione), la traduzione suona: “Biasimate una cosa soltanto”.
La chiave di lettura fornita dal maestro indica che si tratta di colpevolizzare un solo nemico, e che questo nemico è l’attaccamento al Sè.
Come è noto nel Buddhismo per essere felici è importante ridurre l’egocentrismo e aumentare l’altruismo. Porre il proprio “Io” al centro della propria costante concentrazione sarebbe un fattore in grado di aumentare le emozioni negative. In effetti è esperienza comune che la rabbia, la paura e il desiderio sorgano in relazione alla volontà di proteggere se stessi, di aumentare le proprie sensazioni positive e ridurre quelle negative. 
Ma perché non dovrei proteggere me stesso? Come conciliare questo insegnamento con la necessità di aver cura per esempio della propria salute? E perché mai dovremmo altruisticamente cercare di aumentare le sensazioni positive altrui e per noi stessi cercare quelle negative? Non è paradossale? 
In fondo questa massima kadampa richiama da vicino la predica di San Francesco sulla Perfetta Letizia, altrettanto incisiva, poetica e apparentemente paradossale.
Cercherò di interpretare in chiave psicologica questa contraddizione, senza sentirmi interiormente all’altezza di simili voli, ma con il duplice scopo di chiarire qualcosa a me stesso e suscitare nel lettore la mia stessa meraviglia.
Le sensazioni, qui descritte (il termine tecnico pali e sanscrito è “vedana”) sono, secondo Buddhadasa, dei veri tiranni (“Non siamo liberi,perchè in potere delle vedana. Le sensazioni ci costringono ad agire in un certo modo. Costringono la mente,la condizionano a pensare e ad agire come vogliono”, dai discorsi a Suan Mokkh). Secondo i medici invece possono essere sia buone che cattive: le sensazioni negative ci possono avvisare di qualcosa di nocivo per il nostro corpo, ma possono anche indurci a una pigrizia fonte di patologie o a una rabbia inutile e pericolosa, quelle positive migliorano la nostra efficienza ma possono anche indurci a dipendenze e varie infelicità. Insomma l’atteggiamento corretto sarebbe quello di porsi un po’ al di sopra delle proprie sensazioni e capire quando  concedersi le positive, quando accogliere le negative e così via, ovviamente nell’ottica di un benessere globale (quindi mirando in ultima analisi a ridurre la media delle negative e aumentare la media delle positive [1]).
Se le nostre volizioni mirano costantemente e ossessivamente al piacere, inevitabilmente sorgerà la frustrazione derivante dagli ineluttabili ostacoli della vita e dalla terribile “assuefazione edonica”, che ci rende meno deliziosi molti tipi di piaceri una volta raggiunti e replicati. D’altro canto anche la costante fuga dalle sensazioni di dolore e di fatica, aumenta l’afflizione stessa perché la mente si allena con forza a questa fuga, e diviene intollerante e viziata. 
Dunque la strategia giusta dovrebbe contrastare questi fallimenti della nostra psicologia, iniziando ad apprezzare i lati positivi del negativo, come fanno gli sportivi in merito alle fatiche fisiche.
Apprezzo una sensazione negativa, perché 1) è allenante; 2)perché apprezzandola ridurrò la mia schiavitù; 3)perché saper accettare il negativo è a volte indispensabile per fare del bene alle persone che amiamo e per comportarci correttamente verso il prossimo; 4)perché se iniziamo ad apprezzare il negativo, quanto più sarà gioioso per noi il positivo, quando si presenta?
In quanto a quest’ultimo, dovrei forse evitare di cercarlo a tutti i costi, apprezzarlo senza troppo attaccamento, sviluppando maggior interesse per i tipi di gioia che sono meno soggetti ad assuefazione e dipendenza (interessi culturali, sportivi...).
Per me quindi il nemico non è tanto la propria persona, ma quel piccolo demone viziato (“l’animale che mi porto dentro” di Battiato) che non sopporta le frustrazioni e non sa soffrire per gli altri.


Note:
  1. Forse, se interpreto correttamente gli stadi finali della meditazione secondo i testi sacri, il perfetto Buddha non avrebbe più alcun legame con le sensazioni, ma questo può essere un modo di preferire una totale pace a una costante oscillazione tra positivo e negativo: decisamente qui si sta andando oltre la mia comprensione.

mercoledì 20 novembre 2019

Cos’è la coscienza?

La parola “coscienza” è un esempio di quei termini che vengono usati con accezioni mobili e diversificate, al punto di spingerci a valutare la scelta di eliminare il termine dalle discussioni: data l’esistenza degli atomi esperienziali e dei poteri, è necessario definire anche la funzione “coscienza”? Non bastano gli elementi citati per descrivere ogni aspetto basilare dell’esperienza umana?
Per ponderare questa ipotesi immaginiamo la differenza tra una persona cosciente e una incosciente: che cosa le distingue? Pensiamo a tre situazioni esemplificative: 
1)Se la persona può interagire col mondo esterno (non è paralizzata) allora il suo essere cosciente è valutabile con la sua capacità di rispondere finalisticamente a stimoli ricevuti, benché non si esaurisca in questo, ma comprenda anche la facoltà di percepire e ricordare i propri fenomeni interiori (sogni, sensazioni, pensieri...). Quindi rispetto all’incosciente la persona cosciente ha tre facoltà fondamentali: percepisce, ricorda, interagisce.
2)se è completamente paralizzata (come nei pazienti locked-in o nei pazienti erroneamente curarizzati senza adeguata anestesia generale) il vissuto della persona sarà un flusso di pensieri e di materiale dei cinque sensi. La persona cosciente e paralizzata pertanto percepisce e ricorda, senza interagire (i “locked-in” comunicano solo con gli occhi). Da studi sulla distinzione fra stato vegetativo e stato “di coscienza minimale” emerge che un paziente con danno cerebrale severo può essere totalmente privo di interazioni col mondo ma avere ancora pensieri, percezioni e volizioni (8), e perfino qualche “potere”.
 3)In totale assenza di funzioni mnemoniche, come forse avviene in una demenza molto avanzata, tale “flusso” non sarà affatto simile allo “stream of consciousness” joyciano (7) perché i monologhi interiori anche più sconnessi prevedono la memoria: senza alcun ricordo percepito ogni fenomeno sarebbe disgiunto da quello immediatamente precedente e successivo e nessun pensiero sarebbe possibile perché pensare una frase -semplificando molto- implica ricordare ad ogni parola tutte le parole precedenti, e anche il pensiero rapido privo di parole non può sorgere senza materiale depositato in memoria. Ma è davvero possibile percepire senza ricordare? Ovviamente sì se manca solo la memoria a medio e lungo termine: ciò succede tutti i giorni. Ma se mancasse anche la possibilità di memoria a brevissimo termine? In questo caso si tratterebbe di un flusso di fenomeni sensoriali con scarsa o nulla possibilità di pensiero, ma forse anche in questo flusso, difficile da immaginare (che  nessuno potrebbe testimoniare e che il soggetto non potrebbe testimoniare neppure a se stesso) vi è l’embrione di ciò che tendiamo a chiamare coscienza. Quasi al limite della nostra idea tradizionale di percezione, in cui vi è un soggetto e un oggetto di percezione, qui, nell’uomo totalmente privo di memoria, sembrano apparire solo fenomeni, svincolati da un’organizzazione mentale catalogante. 
A noi la decisione, si tratta solo di una convenzione, se chiamare anche questo “coscienza”: io sono per il sì, per motivi pratici, dato che vanno considerati esseri senzienti e fratelli senza alcuna esitazione anche gli sventurati che smarriscono quasi del tutto i propri ricordi, e chiamarli “privi di coscienza” o “dotati di coscienza minimale” potrebbe portare a delle aberrazioni.
Questi ultimi soggetti sono casi limite, forse solo immaginari perché è indimostrabile una perdita totale di ogni forma di memoria. Essi qualora esistessero, percepirebbero senza ricordare e senza interagire.
Insomma sembra che il minimo comun denominatore delle situazioni di coscienza descritte sia il fatto di percepire: faremo dunque in modo che nella nostra definizione una singola percezione sia sufficiente a diagnosticare la presenza di coscienza, almeno istantanea. 
Percorrendo mentalmente gli esempi citati e gli ovvi esempi di assenza della coscienza, troviamo che è sufficiente la presenza di un solo atomo esperienziale per far sì che si possa parlare di coscienza.
Dunque il nostro rasoio di Occam sembra suggerire questa equivalenza:
Coscienza = “Presenza di almeno un atomo esperienziale”..

Davide Corvi, 20 novembre 2019

martedì 6 agosto 2019

CITAZIONI DA LONGCHENPA

“(...)without the least urge to control, to cultivate or reject, we remain open, at ease, carefree, and detached.”

“Now here, now gone, thoughts leave no trace, and opened wide to seamless rigpa hopes and fears are no longer credible”

“the perceiver unloosed, the field of perception dissolved, with nothing to hold on to, yet with full awareness, this is the contemplation of consummate undistracted mindfulness”

“(...)watch the nonactive sky-like nature of mind!”

“With incisive recognition, just leave things alone in simplicity!”

“whatever appears in the field of mind through sensory perception, as a crucial locus of seamless sameness, is assimilated to spontaneity’s natural concentrated absorption.”

“crucial nonaction that supersedes all intention and ideation, and with the vital zero-attachment to whatever appears.”

“(...)though pleasure and pain are surely felt, they do not move from essential total presence, sole self-sprung awareness: know all experience as the one spaciousness, as emptiness, the same unborn reality of pure mind!”

“In the empty scope of myriad self-dissolving thoughts and visions, whatever moves, relax and let it alone, just as it falls, and contemplation of reality arises within the movement.”

Longchenpa, The treasury of natural perfection (Wisdom Publication)

domenica 4 agosto 2019

ALTRI ESERCIZI VYPASSANA

ALTRI ESERCIZI VYPASSANA 

Per progredire nella nostra conoscenza della mente “statica” (ovvero della mente nei momenti meditativi, in cui ci si può permettere di non avere altre occupazioni eccetto 
la meditazione stessa), ecco alcuni altri possibili esercizi:
1)Fare in modo che non vi sia alcuno sforzo, alcuna volizione, fatta eccezione per la volizione di mantenere la postura meditativa, e lasciar scorrere il proprio “flusso di coscienza” senza mai lasciarsi trascinare da alcuna delle sue “correnti”. Potremmo definire questo stato un “riposo volitivo”. Infatti usualmente anche quando fantastichiamo ad occhi aperti tendiamo a tradurre ogni fenomeno nei termini di “questo è desiderabile”, “questo è da evitare”, “dovrei agire in questo o in quest’altro modo”, “dovrei reagire a questo pensiero”. In questo stato si gode il riposo da tutte queste volizioni. Ovviamente è un riposo momentaneo, non uno stato da applicare a tutto il resto della giornata.
2)Cercare colui che medita. Suggerito nei testi Dzogchen (per esempio dal leggendario Padmasambhava), questo esercizio ha forse la finalità di mostrare la vacuità del Sè (come recitano i sacri testi buddhisti, “il Sè non può essere trovato”). A mio avviso in realtà ci sono altre possibili spiegazioni del fatto che non è percepibile colui che medita: per esempio il fatto che il Sè in quei momenti sia principalmente identificabile con il pensiero volitivo “devo cercare il Sè”. Questo pensiero di fatto è percepibile, ed è forse la principale manifestazione del Sè convenzionale in quel momento.
3)Cercare i pensieri “puri”, ovvero focalizzarsi su uno solo dei 6 aspetti della coscienza, il pensiero (definito come sopra). Il pensiero, se vogliamo usare una terminologia imprecisa e antiquata, ma per varie ragioni utile dal punto di vista didattico, è la componente più immateriale della nostra coscienza, non è vista, non è udito, né olfatto né tatto né gusto, è “solo” tutto ciò che sia esprimibile con una frase compiuta (soggetto, verbo etc). Torneremo su questa corrispondenza biunivoca tra proposizioni linguistiche e pensieri e sul motivo per cui nella nostra classificazione non sia dato pensiero che non sia esprimibile in frasi.
Focalizzandosi dunque sulla ricerca dei pensieri si potrebbero sviluppare alcune qualità e nuove comprensioni:1)Dato che i pensieri sorgono ancora che senza essere stati evocati, abbiamo due possibilità interpretative: o il nostro Io agisce in modo indipendente dalla nostra volontà (difficile in tal caso poterlo chiamare ancora “Io”) oppure i pensieri non hanno sempre a che fare con il nostro Io; riconoscendo dunque come “non nostri” molti pensieri, possiamo prendere le distanze da essi e dagli eventuali turbamenti ad essi associati; 2)avendo posto come oggetto focale un fenomeno che non ha a che fare con i canonici cinque sensi e neppure con i ricordi e le immaginazioni sensoriali, ci si potrebbe ritrovare più distaccati dalle principali basi del desiderio e dell’avversione.

sabato 15 giugno 2019

15- ANALISI DEI FANTASMI

ANALISI DEI FANTASMI (Da L’Anatomia delle Emozioni di Davide Corvi)
Quello che per Aristotele erano i “phantasmata” è più o meno paragonabile a quello che Hume chiamava “idee”: le copie mentali di un evento sensoriale o emotivo, in parole più semplici i ricordi e le immaginazioni. Questi fenomeni, a voler essere poetici, richiamano davvero i fantasmi della letteratura: hanno contorni meno definiti dell’evento reale, sono molto meno vividi, tuttavia hanno il potere di suscitare emozioni intense e possono anche perseguitarci (quanti fantasmi di innamorate, o fantasmi di errori commessi, tormentano i poveri malcapitati!). Può essere che i grandi scrittori abbiano fantasmi più vividi del comune, data la loro grande capacità di descrivere in dettaglio anche eventi lontani (pensiamo alle Memorie Intime di Simenon, per esempio o alla fervida immaginazione di Tesla).
Hume riteneva che vi fosse una certa differenza di nitidezza fra i ricordi e le immaginazioni, ma io non rilevo nel mio vissuto questa realtà.
Tra l’altro se le immaginazioni (come diceva Hume stesso) non fossero altro che un rimescolamento e un’alterazione dei ricordi semplici (per esempio: non ho mai visto un unicorno, ma ho già visto un cavallo e un corno separatamente, e la mia fantasia non fa che associarli), perché mai l’immagine “fantasmatica” di un unicorno dovrebbe essere meno vivida delle immagini di eventi reali ricordati, essendo composta di fatto da due immagini ricordate? 
Io però non credo che la fantasia si limiti a comporre immagini già viste come in un collage e per dimostrarlo ho pensato questo semplice esperimento: immagino una matita che traccia una linea su un foglio e cerco di imprimere nella mia memoria ciò che ha tracciato. Immagino per esempio che disegni un volto deforme e mostruoso. Posso affermare che questo volto sia la composizione di immagini mnestiche precedenti? No: se lo fosse basterebbe modificare gli occhi allungandoli a dismisura o effettuare qualunque altra modifica per ottenere un viso del tutto nuovo.
Dunque la fantasia applicata al campo visivo non si limita a comporre, ma può sbizzarrirsi con tutto il materiale sensoriale possibile (tutti i “pixel” e i “voxel” mentali in tutti i miliardi di combinazioni possibili, con tutti i colori pensabili).
La fantasia applicata agli altri quattro/cinque sensi richiede un’analisi ulteriore: possiamo immaginare suoni che non abbiamo mai sentito? Sensazioni corporee che non abbiamo mai provato? Sapori? Odori? Trovo più difficile dare una risposta altrettanto chiara. 
Ancora più complesso cercare di capire se possiamo immaginare dei pensieri che non abbiamo mai avuto: personalmente ricordo di aver vissuto in alcuni momenti il ricordo vago di un pensiero passato, non così distinto da poterlo capire o esprimere in parole, una sorta di fuggevole fantasma di pensiero; questo può avvenire anche per intuizioni mai avute in passato, così fugaci da non lasciare quasi traccia.
Tornando alla distinzione ricordo-immaginazione, l’unico modo per distinguere il ricordo dall’immaginazione è dunque forse l’analisi automatica e quasi inconscia che la nostra mente svolge, attribuendo il pensiero “Ciò è accaduto” a questo e a quell’altro fantasma, agevolata nella sua operazione dal fatto che di solito il ricordo si inserisce in una trama di eventi coerenti e parimenti ritenuti reali.

martedì 11 giugno 2019

VYPASSANA- esperimento 1

VYPASSANA
L’analisi della mente nata dagli esercizi di Vypassana comprende un’infinità di testi filosofici. Lo scopo di questo capitolo è approfondire la conoscenza dei pensieri e degli altri aggregati attraverso alcuni esperimenti mentali. Questi esperimenti saranno seguiti da citazioni dei più grandi filosofi buddhisti in merito ai temi affrontati.
  1. In postura meditativa e in totale (o per meglio dire quasi totale) immobilità, focalizzarsi su qualunque fenomeno appaia ai “sei sensi” (in particolare sul fenomeno che appare con più forza, con più intensità) senza compiere alcun lavoro concettuale su di esso, lasciando che appaia e scompaia senza volerlo trattenere o respingere, per poi passare al successivo evento “proposto” dalla nostra mente. Quindi gli unici sforzi richiesti sono: l’immobilità, l’attenzione, l’impegno a non proseguire ragionamenti e concettualizzazioni che dovessero insorgere in relazione al vissuto mentale istantaneo. Se tali ragionamenti proseguissero indipendentemente dalla propria volontà, osservarli come si fa con qualunque altro fenomeno, senza alcuno sforzo ulteriore.
Obiettivi dell’esperimento: allenarsi a stare con vari tipi di contenuti mentali (non proprio tutti, come vedremo) senza esserne turbati (anche il turbamento stesso, nei suoi vari vettori, può essere contemplato senza acconsentire a concettualizzazioni “conturbanti”: persistono forse le fugaci sensazioni di tensione ma non i corrispettivi pensieri), e senza alcuna compulsione ad agire in merito ad essi. Ovviamente va pre-impostato un limite di “sicurezza”: “non agirò a meno che non si tratti di una questione di salute non rimandabile” (es. mi accorgo di aver lasciato acceso il fornello, mi si è completamente anestetizzato un piede etc...).
Quindi dovrebbe nascere una maggior apertura e tranquillità nei confronti dei contenuti del nostro vivere interiore, una maggior conoscenza della sottile composizione e forma di tali contenuti, e la netta consapevolezza della loro impermanenza.
Non bisogna porsi come obiettivo le sensazioni di tranquillità, che però potrebbero manifestarsi come sottoprodotto, dovute alla quasi totale assenza di sforzi mentali discorsivi, e alla riduzione delle paure che teoricamente potrebbe sgorgare dall’assuefazione a qualunque contenuto mentale doloroso. 
Un ulteriore risultato può provenire dall’analisi di ciò che comunemente chiamiamo “negativo” o “positivo”, come chiarirò nel prossimo articolo.

Whatever occurs externally as the manifold appearance of the five types of external objects (forms, sounds, smells, tastes, and tangibles) or internally as some mental activity, at the very moment of its inception as a field it is seen just as it is, and by the force of its advent it is fully potentiated and then vanishes by itself—how could it possibly remain?—released without trace, and in that moment the three crucial functions—carefree detachment in whatever arises, access to wide-open spaciousness, and easy relaxation into the appearance upon its inception—are assimilated. Thus we capture the citadel that is the natural disposition of pure being.

Longchenpa, Natural Perfection

sabato 4 maggio 2019

SHAMATA- seconda parte

SHAMATA-seconda parte

“Passando davanti alle dozzine di pescatori rugosi allineati in silenzio lungo l’antico ponte Galata, ognuno con l’ombrello in una mano e la canna nell’altra, Zeliha invidiò la loro capacità di rimanere immobili per ore ad aspettare un pesce che non abboccava mai”
Elif Shafak


Tina Rassmussen e Stephen Snyder, nella loro bella monografia su Shamata (La Pratica dei Jhana), hanno analizzato la fenomenologia della concentrazione nata dall’Anapanasati, mostrando cosa accade alla mente del meditante nei vari stadi di assorbimento. 
Lo studio è davvero affascinante, per chi ha la possibilità di isolarsi in un monastero per molti giorni: sarebbe una stupenda tesi per un laureando in Psicologia o in Filosofia. Temi come la “coscienza” e il “dualismo soggetto-oggetto” potrebbero diventare per lui non più un astruso tema accademico, ma una realtà esistenziale. 
Dato che personalmente ho conosciuto solo un primissimo livello di concentrazione meditativa non posso chiosare ulteriormente questo testo.  
Dubbi permangono sull’applicabilità quotidiana di una simile trasformazione mentale: in un mondo che richiede concentrazione rapida con spostamento del fuoco attentivo su più fronti e una forte attitudine alla compassione, un’abitudine alla quiete meditativa può giovare davvero? Non può trasformarsi in un Nirvana da cui risulti doloroso e difficile staccarsi?
Agli studiosi l’ardua sentenza.
Gli stessi meditanti però mettono in guardia dall’utilizzo della concentrazione focalizzata come unica tecnica meditativa:
“Single-pointedness is an experiential appearance. It is a worldly path, and during it one accumulates karma.” (Lord Tsangpa Gyaré)
Dovremmo quindi, nel nostro percorso di analisi mentale applicata, continuare a fissare l’obiettivo, che è la creazione di una personalità il più possibile equilibrata e funzionale rispetto alle esigenze che l’altruismo e un corretto amore per il mondo implicano. 
Pertanto la tranquillità di Shamata andrà affiancata da un lato all’impulso all’azione che nasce dalla Compassione, dall’altro alla capacità di distacco anche dalle stesse sensazioni di tranquillità (non sviluppare attaccamento per nessuno stato mentale). In questo potrà aiutarci Vypassana.

giovedì 25 aprile 2019

SHAMATA- (prima parte)

SHAMATA (prima parte)

Vi sono monaci che si dedicano strenuamente all’inspirazione ed espirazione meditata che, meditatamente esercitata e seguita, è di gran frutto e profitto.”
Anapanasati Sutta (canonepali.net)


Come è stato già accennato la nostra attenzione, che è correlata strettamente a ciò che intendiamo con coscienza, ha generalmente degli oggetti di “fuoco” e degli oggetti di sfondo, assimilabile in questo a una macchina fotografica o a un cellulare in modalità ritratto, che- quando decidiamo di mostrare tutti i dettagli di un volto -ci restituisce l’immagine di questo accompagnata da un intorno di oggetti sfocati.
In ogni istante della nostra vita ci stiamo occupando di qualcosa: un’attività, un’osservazione, un pensiero (oppure più di una). Esiste qualcosa che poi ci “sposta”, ci fa muovere verso un’altra attività: può essere una decisione prefissata (“al termine di questo articolo, mi farò un caffè”) o un evento che fa improvvisamente muovere il nostro “fuoco”, il nostro “cannocchiale” (metafora di sapore galileiano usata spesso da Alan Wallace) verso qualcosa d’altro.  
L’esercizio mentale di Shamata consiste in un prolungato utilizzo del nostro potere attentivo, che viene indirizzato a un particolare oggetto nel campo dei “sei sensi” per molti minuti o ore (o, per monaci “maratoneti dell’attenzione”, anche giorni) con finalità variamente definibili ma in genere miranti a una certa modifica del proprio stato mentale, che dovrebbe divenire contemporaneamente più lucido e più rilassato.
Seduti nella posizione del loto o del semi-loto, con la schiena dritta, il corpo (compresi gli occhi) del tutto immobile ma non teso (sono contratti solo i muscoli necessari per il mantenimento di quella postura) i meditanti si concentrano su un solo fenomeno (single-pointedness); spesso viene scelto il respiro stesso nel suo passaggio al punto di “anapana” (tra il labbro superiore e le narici).
Quando l’attenzione divaga e si accorge che sta osservando qualcos’altro (il verbo osservare in questo caso non indica un’attività svolta con gli occhi ma con la mente stessa) il meditante dovrebbe limitarsi a tornare all’oggetto prefissato senza avere alcun moto di fastidio o senso di colpa per aver fallito (tali moti dell’animo causerebbero solo distrazione ulteriore). Questo ripetuto “tornare all’oggetto” genera in condizioni propizie uno stato mentale di profonda tranquillità idealmente priva di sonnolenza in cui predomina l’oggetto stesso. Oltre alle distrazioni, la sonnolenza e l’agitazione mentale sono i due opposti nemici da cui il meditante deve difendersi.
Obiettivi:
Distinguendo gli obiettivi laici da quelli religiosi, dato che per questi ultimi mancano il tempo e la dovuta competenza elencherò i possibili benefici laici e le scoperte svelate con questo esperimento mentale:

1)EFFICACIA Appare nettamente la comprensione del fatto che ciò che riteniamo più connesso alla nostra idea di Sé, ovvero i pensieri, sfugge frequentemente al nostro stesso controllo: non solo le volizioni (sottoinsieme dei pensieri) non hanno sufficiente potere da tenere sotto controllo gli altri pensieri e men che meno le percezioni, ma le volizioni stesse sono impermanenti e fugaci, e ci si ritrova a inseguire un pensiero dimenticando il compito che ci si era prefissato. Ovviamente migliorando la nostra capacità attentiva questo divario tra ciò che penso e ciò che voglio pensare può ridursi, generando il primo possibile beneficio di Shamata, cioè una maggior efficacia della nostra vita mentale in quanto più focalizzata. Tuttavia nella mia esperienza la vita sociale e lavorativa implicano un continuo spostamento su diversi piani della nostra attenzione, rendendo la focalizzazione su un punto solo spesso inapplicabile e apparentemente poco adatta a chi vive nel mondo. È pur vero che forse un’applicazione modificata di Shamata potrebbe invece servire, ma ne parleremo in seguito per non complicare troppo questo articolo.

2)DISTACCO È facile arrivare a comprendere che forti desideri e forti avversioni sono i principali fattori distraenti, per cui concentrarsi vuol dire già di per sé praticare il distaccoverso tutto ciò che non è il proprio oggetto (che chiameremo d’ora in poi “consegna”). Tale esercizio spirituale diviene pertanto un esercizio volto alla libertà mentale, a un distacco rigenerante da pensieri volitivi ripetitivi e sterili.

3)EQUILIBRIO Si inizia a prendere coscienza di alcuni paradossi psicologici: per esempio il fatto che un eccessiva avversione alle distrazioni è nociva alla concentrazione stessa, un esasperato desiderio di calma può essere un ostacolo alla calma stessa, paradossi che nei testi buddhisti vengono talvolta riassunti in frasi sibilline e apparentemente contraddittorie come “abbandona la speranza in un risultato”: questa stessa speranza in fondo potrebbe generare attaccamento e distrazione durante la pratica. In genere ci si allena a evitare gli estremi: l’estremo dell’attaccamento a una distrazione così come l’estremo dell’avversione, l’estremo della sonnolenza come l’estremo dell’agitazione, l’estremo del non credere ad alcun pensiero (in tal caso smetteremmo anche di meditare: a che pro se la volizione “devo meditare” fosse fallace?) come l’estremo di credere a ogni pensiero che si affacci alla nostra finestra di consapevolezza.

4)Gli stati mentali di maggior profondità (assorbimenti meditativi) possono probabilmente essere raggiunti solo durante ritiri intensivi, salvo casi di soggetti particolarmente dotati. Io non sono tra questi ultimi, e nei miei venti minuti quotidiani non ho mai ottenuto molto di più che un gradevole rilassamento concentrato.

Il potenziamento della concentrazione dovuto a Shamata secondo gli esperti può essere utilizzato in esercizi meditativi più avanzati, come vedremo. Perché naturalmente l’oggetto scelto può anche essere diverso dal semplice respiro.

mercoledì 17 aprile 2019

BLOG: AVVERTENZE E ISTRUZIONI PER L’USO

BLOG: AVVERTENZE E ISTRUZIONI PER L’USO

Nei prossimi articoli entreremo nel vivo dell’analisi dei fenomeni mentali, studiando le tematiche della concentrazione, le dinamiche del desiderio e dell’avversione, i fondamenti naturali della conoscenza, le pratiche meditative, la gioia meditativa e mondana, le felicità e alcuni aspetti delle fedi religiose.
Temi complessi, e per i quali in un mondo ideale sarebbe opportuno lasciare il posto a grandi maestri di rara saggezza e compassione. Questi maestri esistono, ma nessuno di essi ha tracciato un compendio sistematico, organico e coerente della filosofia mentale introspettiva con un’impostazione totalmente laica e simile a ciò che mi pare di aver intuito.
Questo è quello che cercherò di fare, a scopo puramente conoscitivo e scientifico, e non certo per indicare a qualcuno la strada per essere felice.
Io sono una persona comune, con alti e bassi emotivi, e non sono un modello di sapienza e compassione, per cui vi prego di non prendere gli esercizi mentali e filosofici che seguono come un percorso spirituale, né tantomeno come percorso terapeutico, un ruolo che il mio blog non ha la presunzione di ricoprire. Le mie conoscenze in psichiatria e in psicologia tradizionale sono quasi nulle, e la mia emotività è sempre stata sotto alcuni aspetti poco equilibrata, con tendenza ad alcune manifestazioni d’ansia: quindi qui non troverete certo un valido insegnante di meditazione o un competente psicologo!
Non sono neppure sicuro che gli esercizi meditativi proposti siano utili per tutti allo stesso modo: la letteratura in tal senso è ancora insufficiente. 

Quindi: se avete grossi problemi psicologici, non ricorrete a questo blog ma cercate altrove, se invece siete studenti di filosofia o di teologia equilibrati, o se siete psicoterapeuti, mi auguro che le suggestioni qui presenti stimolino in voi fruttuose ricerche.

lunedì 15 aprile 2019

OBIEZIONI ALL’ALTRUISMO-2


GIOVANNI: Quando è giusto compiere azioni eroiche per salvare qualcuno?


PROF: Secondo me vale la prima regola del soccorritore (che viene insegnata anche nei corsi di primo soccorso stradale): la propria incolumità viene prima di tutto. Se parliamo di soccorso a persone sconosciute non ci si avvicina a una scena di pericolo se si teme per la propria vita: ovviamente, parlando in percentuale, se corro un rischio di morire estremamente remoto meglio soccorrere, ma se mi ostino a fare l’eroe rischiando grosso otterrò che invece di una sola vita umana se ne perdono due...Le situazioni della vita sono svariate e non sempre riconducibili a una regola fissa, ma l’importante è evitare gli estremi dell’indifferenza egoista e della temerarietà masochista. Solo se sono certo di cavarmela vado e soccorro. 
La temerarietà eroica va evitata per almeno due motivi: 1) del soccorritore conosciamo la buona volontà ma dello sconosciuto non sappiamo nulla: potrebbe anche essere un soggetto negativo per la società 2) In base a quella che abbiamo chiamato Controprova Kantiana, ti piacerebbe una società dove a volte gli esseri più buoni si sentono costretti dalla loro coscienza a immolarsi per degli sconosciuti? Magari spericolati nuotatori/ arrampicatori o automobilisti dissennati? E far pagare così al povero soccorritore l’imprudenza del soggetto in pericolo? 3) La vita degli altri è preziosa ma la nostra lo è altrettanto. 
Il discorso ovviamente cambia se il soggetto in pericolo è una persona amata: in questo caso è come se fossi in pericolo anche tu insieme a lei, e la valutazione della scena cambia. Riassumerei tutto in uno slogan: “Per gli sconosciuti mettici tutta l’anima, ma non perdere la vita”.


IVAN: una persona che abbia sempre ricevuto solo dolori dagli altri, ad esempio persone che hanno avuto infanzie tremende e rapporti sociali pessimi, difficilmente svilupperà un senso di amore per il prossimo. Potrebbe addirittura (e comprensibilmente) essere portata a odiare. Lei riuscirebbe a cambiare il suo atteggiamento mentale?


PROF.: Abbiamo fatto discendere l’altruismo dalla nostra necessità degli altri. Per cui basta amare una sola cosa nella vita per capire che la sua piena fruizione richiede la presenza di una società di persone felici. Certo si può apprezzare una partita a scacchi anche con persone infelici, o una gita al lago anche in un mondo depresso, ma se tutti sono infelici avrai avversari scacchistici poco brillanti e un lago pieno di cartacce.
Se il soggetto non ha alcun interesse né apprezzamento per le persone o per altri aspetti della vita dovrebbe farsi aiutare da bravi esperti di malattie psicologiche/ spirituali. Questi ultimi dovrebbero fargli percepire non solo competenza tecnica ma grande calore umano. Parlare con qualcuno è essenziale: bisogna avere questo coraggio, per scoprire che non siamo poi tanto diversi o tanto peggiori degli altri.
Se invece non sei così depresso e apprezzi anche solo una cosa o una persona, procedendo concentricamente da questo affetto puoi “raggiungere” tutti gli altri mediante ragionamenti successivi. Perché si ha bisogno di tutti gli altri anche per coltivare un solo hobby o per il benessere di una sola persona. 


BIBLIOGRAFIA:

Ringrazio Roberto Albanesi, che pur elaborando una filosofia molto diversa dalla mia, mi ha suggerito alcune riflessioni utili sul mondo degli “sconosciuti”, che lui chiama “mondo neutro”.

domenica 24 marzo 2019

OBIEZIONI ALL’ALTRUISMO

Alcuni studenti immaginari sollevano dubbi sull’altruismo, dialogando con un professore:

ANNA: “A volte le persone si comportano in modo estremamente sgradevole: come conservare intatto il proprio altruismo?”

PROF:”Il nostro altruismo per essere efficace dovrebbe essere incondizionato, cioè indipendente dalle sensazioni esterne. Altrimenti è troppo debole e fluttuante. Il trucco è pensare che si sta agendo non tanto per la felicità di quello sgradevole fenomeno/persona che appare in quel momento ai nostri sensi, bensì per la felicità dell’essere che si nasconde dietro a quel fenomeno. Dietro a un collega urlante si nasconde una persona , una persona che forse a volte farà del bene ad altri o che forse a casa tratterà meglio i suoi bambini se sarà di buon umore, una persona che inevitabilmente se sarà più infelice produrrà più infelicità intorno a sé...Quindi cerchiamo di amare non tanto quell’uomo o quella donna, ma la persona (e le persone) che si nascondono dietro di lui, nel presente e nel futuro....Ovviamente però bisogna sempre essere pronti a prendere forti contromisure contro chi danneggia in modo serio gli altri”

ROBERTO: “L’altruista non rischia costantemente di agire in modo masochistico?”


PROF: “Il masochismo può essere di due tipi: a breve e a lungo termine. Si definisce masochista a breve termine colui che accetta temporaneamente il dolore per la felicità di qualcuno. In questo senso l’altruista può ( e a volte deve) essere masochista. Ma il problema, ciò che va evitato, è il “masochismo a lungo termine”, il vero e proprio masochismo negativo, cioè quando il bilancio delle sensazioni nell’arco di anni è tutto a favore degli altri. Vediamo come evitare questo errore. Io credo che il modo più breve di trattare l’argomento sia fare uso della Controprova Kantiana, che ho ricavato in forma riadattata dai pensieri morali di Kant : “Quando si è in dubbio se un nostro atteggiamento sia altruistico o masochistico basta immaginarsi che lo stesso atteggiamento sia adottato da tutta la popolazione: se la società che ne emerge è positiva allora l’atteggiamento è altruistico, altrimenti masochistico (o egoistico)”. Per esempio: una donna crede che essere remissiva e accettare tutto (tradimenti e percosse) dal proprio marito sia altruistico, ma se applicasse la Controprova Kantiana si dovrebbe domandare: “Mi farebbe piacere se mia figlia subisse lo stesso da suo marito? Lo riterrei giusto? Riterrei bella una società piena di donne percosse e tradite?Non è forse migliore una società che permetta alla donna di liberarsi da questi tiranni?”. Giungeremo alla conclusione quindi che il vero masochismo è in realtà dannoso per tutti, una forma subdola e nascosta di egoismo.

(continua...)

(Da L’Anatomia delle Emozioni di D. Corvi https://davidecorvi.blogspot.com/2020/04/gli-atomi-esperienziali-un-contributo.html?m=1   https://pensieridiunlettore.blogspot.com/?m=1)
BIBLIOGRAFIA DELL’ARTICOLO SULL’ALTRUISMO

L’ispirazione del precedente articolo nasce dagli Eight verses for training the Mind, testo religioso di Geshe Langri Thangpa, che si può reperire col commento del Dalai Lama dal suo sito ufficiale.

martedì 12 marzo 2019

11- Elogio dell’altruismo

ELOGIO DELL’ALTRUISMO (da L’ANATOMIA DELLE EMOZIONI -D.Corvi)

È riconosciuto da molte autorità spirituali il fatto che lo scopo della vita sia essere il più possibile felici.
 Del resto, se ci prefiggessimo uno scopo diverso, qualora questo altro scopo ci rendesse infelici, sarebbe difficile immaginare una motivazione per persistere in tale scopo, salvo il pensiero che la non realizzazione di esso comporti un peggioramento dell’infelicità stessa. Anche in questo caso quindi l’individuo non starebbe facendo altro che perseguire la propria felicità o la minor infelicità possibile.
La ricerca della felicità consiste in questi due sforzi:
1-Aumentare la percentuale  emozioni che avvertiamo come positive
2-Adottare atteggiamenti mentali che riducano l’impatto delle inevitabili emozioni negative 
Prima di studiare come procedere in questo campo analizzeremo un utile stratagemma che ci fa guadagnare punti su tutti e due i fronti.
Rimandiamo quindi il dibattito sullo scopo del gioco, sullo scacco matto, e iniziamo a valutare un piano strategico per aprire e per condurre la partita: l’altruismo, inteso come “tendenza psicologica a valutare come preziosa la felicità altrui, accettando anche sensazioni negative in vista dell’altrui benessere”. Ma la definizione comporta domande urgenti: “Ma quante sensazioni negative devo accettare per il bene altrui? Quando posso rifiutarmi di soffrire per gli altri senza per questo cadere nell’egoismo?” Urge quindi una definizione più precisa.
Iniziamo però a descrivere i vantaggi dell’altruismo così com’è definito.
Istintivamente cerchiamo tutto il giorno sensazioni positive, ma se lo facciamo in modo irrazionale avremo in premio pessime sensazioni, perché purtroppo, nello stadio evolutivo raggiunto dal nostro corpo, le sensazioni “non dicono sempre la verità”.
L’organismo di solito premia la mente con una sensazione positiva quando è avvenuto qualcosa di salutare: la fame si è placata e il corpo che ha ricevuto energia ce lo fa sapere; allo stesso modo una sensazione negativa mostra un potenziale danno per il corpo. Tuttavia se fosse sempre così (tralasciando per semplificare il discorso più articolato sulle emozioni) non ci sarebbe nulla di male a inseguire ogni istante sensazioni positive e a fuggire ogni istante da quelle negative. 
Tutti però impariamo molto presto che alcune sensazioni positive (per esempio quelle prodotte dalle sigarette) producono sensazioni negative nel lungo termine e alcune sensazioni negative (per esempio quelle sopportate per fare sport) ne producono di positive. Inoltre sviluppare un’eccessiva avversione alle sensazioni negative e un eccessivo attaccamento a quelle positive può portare alla cosiddetta “Sindrome della principessa sul pisello”: la mente, abituata a fuggire e rifiutare ogni dolore, soffrirà anche per minimi disagi, diverrà insofferente e infelice anche in mezzo agli agi più sfrenati.
Anche l’uomo più egoista del mondo se è intelligente impara l’importanza della frustrazione: impara cioè che a volte bisogna soffrire per gioire dopo, si dispone ad essere altruista verso una persona che ancora non esiste: il suo Io del futuro.
Si tratta di una delle più banali verità psicologiche, che però forse perché banale viene un po’ sottovalutata nella cosiddetta civiltà del benessere.
Il passaggio successivo del nostro ragionamento è la considerazione (altrettanto banale, altrettanto trascurata) che la maggior parte delle nostre gioie deriva da altre persone: dal loro lavoro, dal loro affetto, dalla loro onestà, dalla loro intelligenza...Qualunque gioia consideriate è strettamente in relazione con il lavoro o la presenza di qualcuno: è pertanto più probabile godere appieno delle nostre gioie in un mondo di persone felici piuttosto che in un mondo di persone infelici. Anche una gita in montagna in solitudine sarà meno gradevole se avremo scarpe costruite male o cibo quasi tossico a disposizione!
Non ha neppure molto senso tracciare un confine troppo rigido tra le persone che amiamo e gli sconosciuti, comportandoci bene con gli uni e male con gli altri: per capirlo facciamo un esempio concreto: immaginate di dover subire un importante intervento chirurgico. Preferireste che il chirurgo si presentasse riposato oppure che avesse trascorso la notte insonne e pieno di preoccupazioni? Ecco che cominciamo a intuire l’importanza della felicità degli sconosciuti.
In sostanza adottare un atteggiamento sia psicologico che concreto di attenzione scrupolosa alla felicità altrui è conveniente per la nostra stessa felicità.
Tornando all’egoista intelligente, egli riconoscerà allora l’importanza di accettare sensazioni negative non solo per il proprio “Io futuro” ma anche per gli altri (indirettamente comunque beneficiando il proprio Io futuro), riconoscerà l’importanza di una morale “kantiana” secondo cui è bene comportarsi secondo linee guida tali che- se fossero adottate da tutti- ne emergerebbe una società in cui ameremmo vivere.
L’altruismo (una volta impostato un allarme cognitivo per il versante masochistico) dà benefici concreti anche se ci mostriamo scettici su un ritorno pratico della nostra bontà: infatti un atteggiamento genuinamente cordiale, che si accompagna di riflesso alla convinzione della positività della felicità altrui, produce un numero maggiore di sorrisi, di sincero affetto, di sensazioni sociali positive, e genera in chi ci incontra la convinzione di potersi fidare di noi, una verità che poi potrebbe avere anche conseguenze pratiche positive.
Per questo la nostra ricerca della felicità è preceduta dall’analisi dell’altruismo: perché rincorrere la felicità solo per se stessi può paradossalmente tramutarsi in un aumento dell’infelicità, per più di un meccanismo a “cavallo di Troia”, in cui la ricerca del piacere si tramuta in dolore, la competizione con la felicità altrui ci rende poco competitivi, il sospetto verso gli altri attira sospetti su di noi e via dicendo.
Riassumendo (e integrando) l’altruismo serve per:
-Costruire una società in cui ci piaccia vivere
-Avere relazioni sociali positive e aumentare il numero dei sorrisi sinceri
-Avere uno stato d’animo ben disposto verso la fatica (dato che inevitabilmente l’altruista non può essere troppo pigro)
-Imparare ad apprezzare la lettura di quei magnifici libri che sono gli altri esseri umani, ricordandosi che si impara molto anche da libri secondari e trascurati dalla letteratura ufficiale.



Nel prossimo articolo una classe di studenti immaginari porrà le sue obiezioni razionali all’altruismo.