PUT ALL THE BLAME ON THE ONE
Si legge nell’”Allenamento Mentale in Sette Punti” di Geshe Chekawa (1102–1176), manuale in versi di istruzioni Kadampa per progredire spiritualmente, un verso sibillino:
“Put all the blame on the one.”
Nella versione italiana del commentario di Dilgo Khyentse Rinpoche allo stesso testo (Intrepida Compassione), la traduzione suona: “Biasimate una cosa soltanto”.
La chiave di lettura fornita dal maestro indica che si tratta di colpevolizzare un solo nemico, e che questo nemico è l’attaccamento al Sè.
Come è noto nel Buddhismo per essere felici è importante ridurre l’egocentrismo e aumentare l’altruismo. Porre il proprio “Io” al centro della propria costante concentrazione sarebbe un fattore in grado di aumentare le emozioni negative. In effetti è esperienza comune che la rabbia, la paura e il desiderio sorgano in relazione alla volontà di proteggere se stessi, di aumentare le proprie sensazioni positive e ridurre quelle negative.
Ma perché non dovrei proteggere me stesso? Come conciliare questo insegnamento con la necessità di aver cura per esempio della propria salute? E perché mai dovremmo altruisticamente cercare di aumentare le sensazioni positive altrui e per noi stessi cercare quelle negative? Non è paradossale?
In fondo questa massima kadampa richiama da vicino la predica di San Francesco sulla Perfetta Letizia, altrettanto incisiva, poetica e apparentemente paradossale.
Cercherò di interpretare in chiave psicologica questa contraddizione, senza sentirmi interiormente all’altezza di simili voli, ma con il duplice scopo di chiarire qualcosa a me stesso e suscitare nel lettore la mia stessa meraviglia.
Le sensazioni, qui descritte (il termine tecnico pali e sanscrito è “vedana”) sono, secondo Buddhadasa, dei veri tiranni (“Non siamo liberi,perchè in potere delle vedana. Le sensazioni ci costringono ad agire in un certo modo. Costringono la mente,la condizionano a pensare e ad agire come vogliono”, dai discorsi a Suan Mokkh). Secondo i medici invece possono essere sia buone che cattive: le sensazioni negative ci possono avvisare di qualcosa di nocivo per il nostro corpo, ma possono anche indurci a una pigrizia fonte di patologie o a una rabbia inutile e pericolosa, quelle positive migliorano la nostra efficienza ma possono anche indurci a dipendenze e varie infelicità. Insomma l’atteggiamento corretto sarebbe quello di porsi un po’ al di sopra delle proprie sensazioni e capire quando concedersi le positive, quando accogliere le negative e così via, ovviamente nell’ottica di un benessere globale (quindi mirando in ultima analisi a ridurre la media delle negative e aumentare la media delle positive [1]).
Se le nostre volizioni mirano costantemente e ossessivamente al piacere, inevitabilmente sorgerà la frustrazione derivante dagli ineluttabili ostacoli della vita e dalla terribile “assuefazione edonica”, che ci rende meno deliziosi molti tipi di piaceri una volta raggiunti e replicati. D’altro canto anche la costante fuga dalle sensazioni di dolore e di fatica, aumenta l’afflizione stessa perché la mente si allena con forza a questa fuga, e diviene intollerante e viziata.
Dunque la strategia giusta dovrebbe contrastare questi fallimenti della nostra psicologia, iniziando ad apprezzare i lati positivi del negativo, come fanno gli sportivi in merito alle fatiche fisiche.
Apprezzo una sensazione negativa, perché 1) è allenante; 2)perché apprezzandola ridurrò la mia schiavitù; 3)perché saper accettare il negativo è a volte indispensabile per fare del bene alle persone che amiamo e per comportarci correttamente verso il prossimo; 4)perché se iniziamo ad apprezzare il negativo, quanto più sarà gioioso per noi il positivo, quando si presenta?
In quanto a quest’ultimo, dovrei forse evitare di cercarlo a tutti i costi, apprezzarlo senza troppo attaccamento, sviluppando maggior interesse per i tipi di gioia che sono meno soggetti ad assuefazione e dipendenza (interessi culturali, sportivi...).
Per me quindi il nemico non è tanto la propria persona, ma quel piccolo demone viziato (“l’animale che mi porto dentro” di Battiato) che non sopporta le frustrazioni e non sa soffrire per gli altri.
Note:
- Forse, se interpreto correttamente gli stadi finali della meditazione secondo i testi sacri, il perfetto Buddha non avrebbe più alcun legame con le sensazioni, ma questo può essere un modo di preferire una totale pace a una costante oscillazione tra positivo e negativo: decisamente qui si sta andando oltre la mia comprensione.