L’ARTE DI DUBITARE DI TUTTO
Se c’è una cosa in cui mi posso dire maestro, mio malgrado, è la terribile e meravigliosa capacità di dubitare di tutto. Devo precisare che però non sono così certo della frase precedente, sentendomi in linea con quella battuta citata da Umberto Eco: “Un tempo ero una persona indecisa, ma ora non ne sono più tanto sicuro”
Questo talento, ammesso che io lo abbia, mi è stato dato da una malattia mentale, il disturbo ossessivo compulsivo, un disagio che un giorno vorrei analizzare e commentare per iscritto.
Chi mi è fratello in questa anomalia esistenziale sa cosa significhi applicare davvero alla vita le massime degli scettici, comportandosi in molte circostanze come Agrippa, di cui Lorenzo Corti scrive:
“Di Agrippa non sappiamo quasi nulla, ma sia Sesto che Diogene gli attribuiscono una delle più notevoli creazioni dello scetticismo antico: i “cinque modi di sospensione del giudizio”. Supponi di star per dare il tuo assenso a una proposizione P. O hai qualcosa da dire a sostegno di P, o assolutamente nulla. Ma se non hai nulla da dire a sostegno di P, non devi dare il tuo assenso a tale proposizione (modo ipotetico). Se invece hai qualcosa da dire a supporto di P, ad esempio Q, allora o Q coincide con P, oppure no. Se Q coincide con P, allora devi sospendere il tuo giudizio su P, in quanto stai usando un argomento circolare, non valido (modo della reciprocità). Se Q non coincide con P, allora o non hai nulla da dire a sostegno di Q (e in questo caso, devi sospendere il giudizio su Q e di conseguenza su P), o hai qualcosa da dire in suo favore, diciamo R. Ora possiamo dire di R quanto abbiamo detto a proposito di Q, e potrai evitare di sospendere il giudizio solo introducendo una nuova proposizione S; e così via all’infinito. Ma non puoi andare all’infinito (modo del regresso all’infinito), perciò non c’è via d’uscita: devi sospendere il tuo giudizio su P.”
Però è abbastanza chiaro che sospendere il proprio giudizio su tutto significa smettere di agire, smettere di vivere, ed è inoltre valida l’obiezione dei filosofi anti-scettici: “Se dubiti veramente allora devi dubitare del tuo stesso dubbio”.
Come si può evitare la paralisi che ineluttabilmente ferma il malcapitato, improvvisamente dubbioso sui suoi stessi ricordi, dubbioso su ciò che ha appena fatto, su ciò che ha pensato, su ogni fenomeno sensoriale o mentale? Non ha forse ragione l’ossessivo, quando afferma che non si può dimostrare nulla, che non si può testimoniare nulla, perché ogni ricordo potrebbe essere falsato o immaginario, e quindi -come è noto anche ai profani- corre a ricontrollare di aver spento il gas ben sapendo di averlo già fatto, perché in realtà...come si fa a sapere di saperlo? Non è forse tutto vuoto, come insegna il Prajnaparamita Sutra?
Dall’impasse psicologico si può sicuramente uscire (come mostrato anche nello stupendo manuale di auto-aiuto “Break free from OCD” di Salkosvskis); questo però vuole essere un articolo filosofico, una riflessione su dogma e dubbio, e non una serie di consigli clinici per soggetti ansiosi: ho citato questo disturbo psichiatrico solo perché trattasi della malattia del dubbio per eccellenza.
Vivere senza essere certi (o quasi certi) di nulla non è possibile, a dispetto di chi finge di riuscire a farlo ma -essendo solo un dilettante -in realtà mente a se stesso. Qualunque gesto verrebbe minato dall’incertezza sulle proprie motivazioni, ogni secondo dall’incertezza sui secondi precedenti.
Allora bisogna credere a tutti i costi a qualcosa, ma a cosa?
Come è possibile costringersi a credere, se le radici del credere affondano nell’analisi razionale di ciò che i sensi forniscono, e tale materiale non è mai veramente fondato?
Per quanto riguarda la mia esperienza, da lunghi e meditati studi ed esperimenti soggettivi sono giunto alla conclusione che l’unico fondamento del credere debbano essere, oltre ai fenomeni sensoriali stessi, le proprie “divinità”. In altre parole, ciò che uno sceglie come Dio della propria esistenza. Ho capito insomma che chiunque ha un “dio”, che è il fondamento di tutte le sue azioni: solo chi non agisce non ha un dio. Che sia il benessere, il successo, il denaro, uno o più “dei” muovono le fila di ogni essere. Nel mio caso sapevo che questo “Dio” aveva a che fare con l’altruismo.
Posta questa base, ho finalmente stabilito due straordinari campi d’azione: il campo in cui dare libero sfogo al dubbio devastatore e il campo in cui aggrapparmi alla mia fede con tutto il cuore.
Tutte le azioni e gli oggetti che sono declinazione dell’altruismo- così dico a me stesso- siano al centro della mia concentrazione, siano l’oggetto di Shamata, siano la fede incrollabile, mentre tutto il resto lo considererò come voleva Buddha: “come un sogno, un miraggio, una bolla di sapone”: non crederò a nulla di tutto ciò che appare al di fuori della sfera degli oggetti di consegna.
Almeno credo.
Forse per questo i meditanti esperti dicono che la meditazione sulla vacuità non può andare disgiunta dalla compassione e viceversa, perché meditare solo sulla vacuità significa smettere di agire, precipitare in un Nirvana indistinto, nichilistico, narcisistico mentre meditare solo sulla compassione ci priva di quei benefici e di quella pace che derivano dalla totale accettazione “Dzogchen”.
Forse ho parlato troppo difficile.
Facciamo un passo indietro: cosa mi sembra inapplicabile in alcune bellissime meditazioni buddhiste? Il fatto che, per esempio, quella mente totalmente aperta a tutto proposta da Longchenpa, se enucleata come spesso avviene da tutto il restante contesto Mahayana, non è compatibile con le azioni quotidiane, dove non possiamo essere indifferenti alle cose, non possiamo permetterci di essere avvolti da un oppio ideologico.
Eppure qualcosa di quelle pagine e di quelle meditazioni (davvero straordinarie) possiamo portarlo con noi anche fuori dal monastero: basta capire che non dobbiamo considerare vuoti proprio tutti i pensieri, ma solo quelli che non riguardano l’azione che ci siamo predisposti a compiere. Scettici verso tutto, tranne l’azione del momento. E dato che quest’ultima deriva dall’amore altruistico, possiamo chiosare: “scettici verso tutto, tranne l’amore”.
Dopo questi pensieri è nata e si è consolidata con alcune esperienze una fede nelle divinità buddhiste, in particolare Tārā.
Davide Corvi 18/2/2020
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