SHAMATA (prima parte)
“Vi sono monaci che si dedicano strenuamente all’inspirazione ed espirazione meditata che, meditatamente esercitata e seguita, è di gran frutto e profitto.”
Anapanasati Sutta (canonepali.net)
Come è stato già accennato la nostra attenzione, che è correlata strettamente a ciò che intendiamo con coscienza, ha generalmente degli oggetti di “fuoco” e degli oggetti di sfondo, assimilabile in questo a una macchina fotografica o a un cellulare in modalità ritratto, che- quando decidiamo di mostrare tutti i dettagli di un volto -ci restituisce l’immagine di questo accompagnata da un intorno di oggetti sfocati.
In ogni istante della nostra vita ci stiamo occupando di qualcosa: un’attività, un’osservazione, un pensiero (oppure più di una). Esiste qualcosa che poi ci “sposta”, ci fa muovere verso un’altra attività: può essere una decisione prefissata (“al termine di questo articolo, mi farò un caffè”) o un evento che fa improvvisamente muovere il nostro “fuoco”, il nostro “cannocchiale” (metafora di sapore galileiano usata spesso da Alan Wallace) verso qualcosa d’altro.
L’esercizio mentale di Shamata consiste in un prolungato utilizzo del nostro potere attentivo, che viene indirizzato a un particolare oggetto nel campo dei “sei sensi” per molti minuti o ore (o, per monaci “maratoneti dell’attenzione”, anche giorni) con finalità variamente definibili ma in genere miranti a una certa modifica del proprio stato mentale, che dovrebbe divenire contemporaneamente più lucido e più rilassato.
Seduti nella posizione del loto o del semi-loto, con la schiena dritta, il corpo (compresi gli occhi) del tutto immobile ma non teso (sono contratti solo i muscoli necessari per il mantenimento di quella postura) i meditanti si concentrano su un solo fenomeno (single-pointedness); spesso viene scelto il respiro stesso nel suo passaggio al punto di “anapana” (tra il labbro superiore e le narici).
Quando l’attenzione divaga e si accorge che sta osservando qualcos’altro (il verbo osservare in questo caso non indica un’attività svolta con gli occhi ma con la mente stessa) il meditante dovrebbe limitarsi a tornare all’oggetto prefissato senza avere alcun moto di fastidio o senso di colpa per aver fallito (tali moti dell’animo causerebbero solo distrazione ulteriore). Questo ripetuto “tornare all’oggetto” genera in condizioni propizie uno stato mentale di profonda tranquillità idealmente priva di sonnolenza in cui predomina l’oggetto stesso. Oltre alle distrazioni, la sonnolenza e l’agitazione mentale sono i due opposti nemici da cui il meditante deve difendersi.
Obiettivi:
Distinguendo gli obiettivi laici da quelli religiosi, dato che per questi ultimi mancano il tempo e la dovuta competenza elencherò i possibili benefici laici e le scoperte svelate con questo esperimento mentale:
1)EFFICACIA Appare nettamente la comprensione del fatto che ciò che riteniamo più connesso alla nostra idea di Sé, ovvero i pensieri, sfugge frequentemente al nostro stesso controllo: non solo le volizioni (sottoinsieme dei pensieri) non hanno sufficiente potere da tenere sotto controllo gli altri pensieri e men che meno le percezioni, ma le volizioni stesse sono impermanenti e fugaci, e ci si ritrova a inseguire un pensiero dimenticando il compito che ci si era prefissato. Ovviamente migliorando la nostra capacità attentiva questo divario tra ciò che penso e ciò che voglio pensare può ridursi, generando il primo possibile beneficio di Shamata, cioè una maggior efficacia della nostra vita mentale in quanto più focalizzata. Tuttavia nella mia esperienza la vita sociale e lavorativa implicano un continuo spostamento su diversi piani della nostra attenzione, rendendo la focalizzazione su un punto solo spesso inapplicabile e apparentemente poco adatta a chi vive nel mondo. È pur vero che forse un’applicazione modificata di Shamata potrebbe invece servire, ma ne parleremo in seguito per non complicare troppo questo articolo.
2)DISTACCO È facile arrivare a comprendere che forti desideri e forti avversioni sono i principali fattori distraenti, per cui concentrarsi vuol dire già di per sé praticare il distaccoverso tutto ciò che non è il proprio oggetto (che chiameremo d’ora in poi “consegna”). Tale esercizio spirituale diviene pertanto un esercizio volto alla libertà mentale, a un distacco rigenerante da pensieri volitivi ripetitivi e sterili.
3)EQUILIBRIO Si inizia a prendere coscienza di alcuni paradossi psicologici: per esempio il fatto che un eccessiva avversione alle distrazioni è nociva alla concentrazione stessa, un esasperato desiderio di calma può essere un ostacolo alla calma stessa, paradossi che nei testi buddhisti vengono talvolta riassunti in frasi sibilline e apparentemente contraddittorie come “abbandona la speranza in un risultato”: questa stessa speranza in fondo potrebbe generare attaccamento e distrazione durante la pratica. In genere ci si allena a evitare gli estremi: l’estremo dell’attaccamento a una distrazione così come l’estremo dell’avversione, l’estremo della sonnolenza come l’estremo dell’agitazione, l’estremo del non credere ad alcun pensiero (in tal caso smetteremmo anche di meditare: a che pro se la volizione “devo meditare” fosse fallace?) come l’estremo di credere a ogni pensiero che si affacci alla nostra finestra di consapevolezza.
4)Gli stati mentali di maggior profondità (assorbimenti meditativi) possono probabilmente essere raggiunti solo durante ritiri intensivi, salvo casi di soggetti particolarmente dotati. Io non sono tra questi ultimi, e nei miei venti minuti quotidiani non ho mai ottenuto molto di più che un gradevole rilassamento concentrato.
Il potenziamento della concentrazione dovuto a Shamata secondo gli esperti può essere utilizzato in esercizi meditativi più avanzati, come vedremo. Perché naturalmente l’oggetto scelto può anche essere diverso dal semplice respiro.