martedì 26 novembre 2019

PUT ALL THE BLAME ON THE ONE

Si legge nell’”Allenamento Mentale in Sette Punti” di Geshe Chekawa (1102–1176), manuale in versi di istruzioni Kadampa per progredire spiritualmente, un verso sibillino:
“Put all the blame on the one.”
Nella versione italiana del commentario di Dilgo Khyentse Rinpoche allo stesso testo (Intrepida Compassione), la traduzione suona: “Biasimate una cosa soltanto”.
La chiave di lettura fornita dal maestro indica che si tratta di colpevolizzare un solo nemico, e che questo nemico è l’attaccamento al Sè.
Come è noto nel Buddhismo per essere felici è importante ridurre l’egocentrismo e aumentare l’altruismo. Porre il proprio “Io” al centro della propria costante concentrazione sarebbe un fattore in grado di aumentare le emozioni negative. In effetti è esperienza comune che la rabbia, la paura e il desiderio sorgano in relazione alla volontà di proteggere se stessi, di aumentare le proprie sensazioni positive e ridurre quelle negative. 
Ma perché non dovrei proteggere me stesso? Come conciliare questo insegnamento con la necessità di aver cura per esempio della propria salute? E perché mai dovremmo altruisticamente cercare di aumentare le sensazioni positive altrui e per noi stessi cercare quelle negative? Non è paradossale? 
In fondo questa massima kadampa richiama da vicino la predica di San Francesco sulla Perfetta Letizia, altrettanto incisiva, poetica e apparentemente paradossale.
Cercherò di interpretare in chiave psicologica questa contraddizione, senza sentirmi interiormente all’altezza di simili voli, ma con il duplice scopo di chiarire qualcosa a me stesso e suscitare nel lettore la mia stessa meraviglia.
Le sensazioni, qui descritte (il termine tecnico pali e sanscrito è “vedana”) sono, secondo Buddhadasa, dei veri tiranni (“Non siamo liberi,perchè in potere delle vedana. Le sensazioni ci costringono ad agire in un certo modo. Costringono la mente,la condizionano a pensare e ad agire come vogliono”, dai discorsi a Suan Mokkh). Secondo i medici invece possono essere sia buone che cattive: le sensazioni negative ci possono avvisare di qualcosa di nocivo per il nostro corpo, ma possono anche indurci a una pigrizia fonte di patologie o a una rabbia inutile e pericolosa, quelle positive migliorano la nostra efficienza ma possono anche indurci a dipendenze e varie infelicità. Insomma l’atteggiamento corretto sarebbe quello di porsi un po’ al di sopra delle proprie sensazioni e capire quando  concedersi le positive, quando accogliere le negative e così via, ovviamente nell’ottica di un benessere globale (quindi mirando in ultima analisi a ridurre la media delle negative e aumentare la media delle positive [1]).
Se le nostre volizioni mirano costantemente e ossessivamente al piacere, inevitabilmente sorgerà la frustrazione derivante dagli ineluttabili ostacoli della vita e dalla terribile “assuefazione edonica”, che ci rende meno deliziosi molti tipi di piaceri una volta raggiunti e replicati. D’altro canto anche la costante fuga dalle sensazioni di dolore e di fatica, aumenta l’afflizione stessa perché la mente si allena con forza a questa fuga, e diviene intollerante e viziata. 
Dunque la strategia giusta dovrebbe contrastare questi fallimenti della nostra psicologia, iniziando ad apprezzare i lati positivi del negativo, come fanno gli sportivi in merito alle fatiche fisiche.
Apprezzo una sensazione negativa, perché 1) è allenante; 2)perché apprezzandola ridurrò la mia schiavitù; 3)perché saper accettare il negativo è a volte indispensabile per fare del bene alle persone che amiamo e per comportarci correttamente verso il prossimo; 4)perché se iniziamo ad apprezzare il negativo, quanto più sarà gioioso per noi il positivo, quando si presenta?
In quanto a quest’ultimo, dovrei forse evitare di cercarlo a tutti i costi, apprezzarlo senza troppo attaccamento, sviluppando maggior interesse per i tipi di gioia che sono meno soggetti ad assuefazione e dipendenza (interessi culturali, sportivi...).
Per me quindi il nemico non è tanto la propria persona, ma quel piccolo demone viziato (“l’animale che mi porto dentro” di Battiato) che non sopporta le frustrazioni e non sa soffrire per gli altri.


Note:
  1. Forse, se interpreto correttamente gli stadi finali della meditazione secondo i testi sacri, il perfetto Buddha non avrebbe più alcun legame con le sensazioni, ma questo può essere un modo di preferire una totale pace a una costante oscillazione tra positivo e negativo: decisamente qui si sta andando oltre la mia comprensione.

mercoledì 20 novembre 2019

Cos’è la coscienza?

La parola “coscienza” è un esempio di quei termini che vengono usati con accezioni mobili e diversificate, al punto di spingerci a valutare la scelta di eliminare il termine dalle discussioni: data l’esistenza degli atomi esperienziali e dei poteri, è necessario definire anche la funzione “coscienza”? Non bastano gli elementi citati per descrivere ogni aspetto basilare dell’esperienza umana?
Per ponderare questa ipotesi immaginiamo la differenza tra una persona cosciente e una incosciente: che cosa le distingue? Pensiamo a tre situazioni esemplificative: 
1)Se la persona può interagire col mondo esterno (non è paralizzata) allora il suo essere cosciente è valutabile con la sua capacità di rispondere finalisticamente a stimoli ricevuti, benché non si esaurisca in questo, ma comprenda anche la facoltà di percepire e ricordare i propri fenomeni interiori (sogni, sensazioni, pensieri...). Quindi rispetto all’incosciente la persona cosciente ha tre facoltà fondamentali: percepisce, ricorda, interagisce.
2)se è completamente paralizzata (come nei pazienti locked-in o nei pazienti erroneamente curarizzati senza adeguata anestesia generale) il vissuto della persona sarà un flusso di pensieri e di materiale dei cinque sensi. La persona cosciente e paralizzata pertanto percepisce e ricorda, senza interagire (i “locked-in” comunicano solo con gli occhi). Da studi sulla distinzione fra stato vegetativo e stato “di coscienza minimale” emerge che un paziente con danno cerebrale severo può essere totalmente privo di interazioni col mondo ma avere ancora pensieri, percezioni e volizioni (8), e perfino qualche “potere”.
 3)In totale assenza di funzioni mnemoniche, come forse avviene in una demenza molto avanzata, tale “flusso” non sarà affatto simile allo “stream of consciousness” joyciano (7) perché i monologhi interiori anche più sconnessi prevedono la memoria: senza alcun ricordo percepito ogni fenomeno sarebbe disgiunto da quello immediatamente precedente e successivo e nessun pensiero sarebbe possibile perché pensare una frase -semplificando molto- implica ricordare ad ogni parola tutte le parole precedenti, e anche il pensiero rapido privo di parole non può sorgere senza materiale depositato in memoria. Ma è davvero possibile percepire senza ricordare? Ovviamente sì se manca solo la memoria a medio e lungo termine: ciò succede tutti i giorni. Ma se mancasse anche la possibilità di memoria a brevissimo termine? In questo caso si tratterebbe di un flusso di fenomeni sensoriali con scarsa o nulla possibilità di pensiero, ma forse anche in questo flusso, difficile da immaginare (che  nessuno potrebbe testimoniare e che il soggetto non potrebbe testimoniare neppure a se stesso) vi è l’embrione di ciò che tendiamo a chiamare coscienza. Quasi al limite della nostra idea tradizionale di percezione, in cui vi è un soggetto e un oggetto di percezione, qui, nell’uomo totalmente privo di memoria, sembrano apparire solo fenomeni, svincolati da un’organizzazione mentale catalogante. 
A noi la decisione, si tratta solo di una convenzione, se chiamare anche questo “coscienza”: io sono per il sì, per motivi pratici, dato che vanno considerati esseri senzienti e fratelli senza alcuna esitazione anche gli sventurati che smarriscono quasi del tutto i propri ricordi, e chiamarli “privi di coscienza” o “dotati di coscienza minimale” potrebbe portare a delle aberrazioni.
Questi ultimi soggetti sono casi limite, forse solo immaginari perché è indimostrabile una perdita totale di ogni forma di memoria. Essi qualora esistessero, percepirebbero senza ricordare e senza interagire.
Insomma sembra che il minimo comun denominatore delle situazioni di coscienza descritte sia il fatto di percepire: faremo dunque in modo che nella nostra definizione una singola percezione sia sufficiente a diagnosticare la presenza di coscienza, almeno istantanea. 
Percorrendo mentalmente gli esempi citati e gli ovvi esempi di assenza della coscienza, troviamo che è sufficiente la presenza di un solo atomo esperienziale per far sì che si possa parlare di coscienza.
Dunque il nostro rasoio di Occam sembra suggerire questa equivalenza:
Coscienza = “Presenza di almeno un atomo esperienziale”..

Davide Corvi, 20 novembre 2019