lunedì 26 settembre 2022

La possibile esistenza di Dio

“Per via della risoluzione che lo caratterizza, un tale intelletto è orientato verso una sola (eka) direzione, mentre quello di chi ha un’indole instabile si perde in un’infinità di rivoli” Bhagavad Gita , trad. Scarabelli, Vinti


“… è nel proprio centro che l’anima finirà per scoprire, dopo acuta purificazione, la presenza di Dio». Edith Stein, Scientia Crucis


“Il fattore psicologico, che agisce con maggior potenza sull’uomo, funge da “dio” poiché è sempre il fattore psichico più potente che viene chiamato dio.” Carl Gustav Jung


“That deity arises from bodhicitta, which comes from the buddhas.”

Garchen Rinpoche, Vajrakilaya


Proseguo i miei appunti sull’analisi mentale eugnostica (eugnosticismo è un neologismo di cui ho già accennato in precedenti articoli: si tratta in sostanza dell’applicazione della conoscenza razionale ai fenomeni interiori di cui si ha coscienza, conoscenza che non deve avere bias scettici né bias fideistici).

Ho già illustrato la mia suddivisione dei singoli istanti di coscienza in atomi mentali, riconoscendone (a differenza delle suddivisioni tradizionali in skanda) solo quattro (ricordando però che i primi tre comprendono anche i rispettivi phantasmata: per comprendere vedi articoli precedenti):

Vista

Udito

Sensazioni corporee

Pensieri

Soffermandoci sui pensieri, di cui ho formulato una definizione che procede per negazioni successive (“ogni fenomeno che appaia alla coscienza e non sia visivo, né uditivo, non sia sensazione corporea, e non sia neppure fantasma visivo, uditivo o corporeo, viene definito pensiero”, definizione che attinge al concetto aristotelico di “fantasma”), vorrei ora analizzare un sottogruppo di pensieri molto importante: i pensieri volitivi. Essi sono il vero movente di tutta la nostra vita, dal momento che, escludendo i fenomeni riflessi e automatici, ogni nostro movimento muscolare, compresi quelli dei muscoli laringei, e larga parte dei pensieri cognitivi, dipende da essi.

I pensieri volitivi sono dunque il motivo delle nostre azioni volontarie, e a livello lessicale (ricordando che però non sempre i pensieri sono espressi con parole: essi sono più rapidi e più profondi della loro vocalizzazione) si possono definire come frasi che iniziano con verbi come: “Devo fare / è necessario fare” e affini.

Ciascun pensiero volitivo dipende da pensieri volitivi di ordine gerarchico superiore, che si possono rintracciare con una catena di domande causali (“devo fare x” Perché? “Perché y” Perché y? “Perché z” e così via) fino ad arrivare a dei postulati, ovvero a delle volizioni che ci appaiono non più discutibili o spiegabili, talmente evidenti per noi da non essere più ulteriormente analizzabili, oppure talmente a fondo analizzate in passato da essere assurte al ruolo di postulato per evitare continue rimuginazioni. Ho chiamato queste volizioni-postulato “centri volitivi”.

È ipotesi di questo scritto che i centri volitivi del singolo soggetto possano essere anche più di uno ma che sia opportuno per la salute mentale che siano ordinati gerarchicamente e che ve ne sia uno solo superiore a tutti gli altri, in modo che, in caso di decisioni che fanno confliggere due centri si sappia sempre quale centro scegliere. Per usare una metafora, nel pantheon possono esserci più dei, ma una sola deve essere la divinità suprema a cui tutte le altre devono ubbidire. È facile nella vita quotidiana assistere a conflittualità di questi centri. Se il centro “amore per la famiglia” confligge con il centro “sete di successo” si verificheranno quei casi di padri combattuti fra carriera e famiglia, che rischiano di far male l’una e l’altra cosa…

C’è chi sostiene che l’incoerenza sia inevitabile per gli esseri umani, ma io credo che (sebbene  forse la coerenza assoluta sia solo un asintoto verso cui tendere) quanto maggiore è la coerenza con un obiettivo “nobile” tanto maggiore sarà la soddisfazione esistenziale dell’individuo; viceversa l’incoerenza renderà più lontani tutti gli obiettivi dell’individuo a causa di dispendio energetico e conflitti (e invece la coerenza con un obiettivo inadeguato ovviamente impoverirà l’esistenza).

Se un centro volitivo ha molta importanza e non viene soddisfatto, nascerà inevitabilmente del dolore esistenziale. Per cui si verifica in un certo senso il divieto evangelico di servire due padroni. 

La piena consapevolezza del proprio centro volitivo semplifica l’esistenza, ma naturalmente non tutti i centri volitivi sono ugualmente efficaci nel conferire significato profondo alla vita.

Il caso estremo (patologico, talmente anomalo da non verificarsi quasi mai) del soggetto che assume come unico centro la ricerca di sensazioni corporee positive mostra un singolare paradosso: poiché la vita umana necessita continuamente dell’aiuto e della collaborazione con altri esseri, il suddetto egoista si troverà a un bivio: o rinunciare alle sensazioni positive procurate da una buona interazione con gli altri (che non può più di tanto simulare, e anche simulata non rende altrettanto) o allontanarsi dal suo centro almeno temporaneamente, con una scissione mentale (“schizofrenia” spirituale) dolorosa. Per converso l’altruista disposto a rinunciare a sensazioni positive per aiutare il prossimo potrebbe a volte ricevere sensazioni positive che non aveva cercato, suggerendo un piccolo richiamo alla massima evangelica secondo cui prima bisognerebbe cercare il “regno di Dio” e tutto il resto sarà dato in aggiunta.

Si verificano insomma curiosi paradossi in ambito spirituale.

La mia personale sensazione è che di questa “schizofrenia” spirituale soffriamo più spesso di quanto ci rendiamo conto, e che riusciamo ad attutirla solo grazie al nostro effimero benessere.

La ragione guida a capire che è necessario un centro, e l’esperienza, insieme alla ragione stessa, può guidare alla scelta del centro.

Se il centro volitivo è lo spirito di fratellanza fra esseri, Mahakaruna, possiamo avere alcune “garanzie esistenziali”: infatti tale caratteristica, oltre ad essere un fattore cruciale in religioni non teistiche come il buddhismo, è anche un attributo di Dio in molte religioni teistiche, inoltre nelle relazioni interpersonali la predisposizione allo spirito di fratellanza agevola di molto i rapporti e rende più sincere le manifestazioni di affetto.

Avere uno spirito di servizio agli altri rende meno gravoso il lavoro e aumenta la predisposizione all’ironia.

Un aspetto più profondo da comprendere riguarda il fatto che un centro volitivo modifica anche il mondo cognitivo: ciò che si conosce del mondo e la filosofia attraverso cui lo si interpreta dipende, per vie non sempre immediatamente riconoscibili, dai nostri centri volitivi, e non solo nel senso deteriore di una cecità che impedisce di vedere ciò che contrasterebbe con i nostri desideri ma anche in un senso a volte spiritualmente positivo: la filosofia di vita è “generata” dal centro volitivo in modo inaspettato. Occorre un esempio: tra una filosofia pessimista che vede il mondo come concatenarsi causale privo di senso trascendente in cui la felicità umana è una chimera e una opposta filosofia che riconosce un senso e che ritiene che il gioco/battaglia dell’essere umano non sia solo il dimenarsi di una marionetta ma possa anche essere una progressione spirituale verso livelli sempre più alti di realizzazione e di Bodhicitta, e che la gioia anche del più piccolo degli esseri sia un tesoro che in qualche modo misterioso e vasto sfugge alle leggi dell’impermanenza, l’uomo che ha scelto un centro volitivo di fratellanza sceglierà la seconda filosofia. Dato che la prima filosofia porta a dolore esistenziale e a comportamenti inadeguati essa è per lui falsa. Ecco quindi che un centro volitivo nobile come Bodhicitta illumina il suo “devoto”, verificandosi una sorta di “credo ut intelligam”, e il centro volitivo porta a nuovi criteri di verità/falsità.

Meglio precisare ulteriormente.

Ciò che indica se un fenomeno sia vero o falso è il sistema di postulati di riferimento. Un fenomeno testimoniato dai sensi non è di per se stesso vero o falso a meno che la filosofia di fondo non ne accerti con chiara cognizione la natura. Insomma  i postulati filosofici determinano il criterio di verità, ma tali postulati dipendono esclusivamente dal centro volitivo. Se il centro volitivo è un Dio di Compassione, anche i fenomeni più duri dell’esistenza, avendo caratteristiche impermanenti, verranno ritenuti solo apparenze mondane, qualcosa destinato a finire, e mai intralci lungo il cammino o fenomeni che pongono dubbi alla fede. Viceversa i traguardi spirituali, i legami affettivi nobili e i frutti dello spirito di fratellanza verranno ritenuti come intrinsecamente eterni, in quanto discendenti dal centro volitivo, di cui non si può mai percepire la fine dipendendo dall’adesione volontaria del soggetto.  In effetti tali frutti persistono anche dopo la morte dell’individuo. Invece di ogni dolore non si può negare che prima o poi scompaia: a che scopo fondare una filosofia sul dolore? Fondare il proprio centro sulla gioia invece mette già in una buona disposizione d’animo.

Se non ricordo male, perché non mi riesce più di trovare la citazione, Teresa d’Avila riferiva di aver ricevuto da Dio il consiglio di considerare falso tutto ciò che non discende da lui. Così chi ha posto Mahakaruna come centro dell’esistenza considererà falsi tutti i pensieri che non discendono da (e non generano a loro volta) Mahakaruna. E all’interno delle singole attività quotidiane in cui si declina il servizio al proprio “centro”, sarà considerato come vacuità tutto ciò che non è attinente a tale attività. Così il soggetto può allenarsi alla vacuità (intesa in senso buddhista) contemporaneamente all’esercizio della compassione: come ho scritto altrove, tutto ciò che non è amore è vacuità. L’amore si salva dall’impermanenza e la trascende, perché ogni istante dell’individuo sarà occupato dall’amore che dunque risulta esistenzialmente eterno (l’individuo non ne percepirà mai la fine, e inoltre consegnerà un testimone di fratellanza al futuro).

Il “vedere tutti fenomeni come sogno”, consigliato nel lo-jong e nello Dzogchen, riceve una cruciale modifica: considerare così tutti i fenomeni, tranne Uno.

Per concludere questa prima parte, ecco un aforisma : “Non c’è nessuno che sia davvero senza dio (=centro volitivo). A te la scelta di quale dio sia il migliore”.


[Una piccola raccomandazione: evitare il masochismo, essere equilibrati].


[Piccola dimostrazione dell’impossibilità di avere più centri volitivi equipotenti.

Se due centri volitivi non hanno mai conflitti, essi sono come un unico centro, perché la loro piena compatibilità permette di leggerli come comandamenti equipotenti, come uno scopo di vita che si declina in due componenti. Se hanno conflitti è opportuno predeterminare quale dei due prevalga, e quindi va da sé che quest’ultimo è gerarchicamente superiore.]

sabato 4 aprile 2020

GLI ATOMI ESPERIENZIALI: un contributo sulla Coscienza

 Il seguente articolo riassume, sintetizzando i precedenti interventi del blog, il mio punto di vista sulla Coscienza:

GLI ATOMI ESPERIENZIALI: UN CONTRIBUTO SULLA COSCIENZA 

Nella psichiatria moderna, che presenta schemi classificatori molto precisi di tutte le patologie, si rileva una mancanza di precisione scientifica nelle definizioni degli elementi fondamentali del vissuto mentale, le emozioni, i pensieri, le sensazioni, i cinque sensi e via dicendo. Si lascia di solito l’arduo compito di definire questi elementi alla filosofia, una disciplina che è però ben lontana dal raggiungere un’ univocità su queste nomenclature.
Grazie all’integrazione fra la mia esperienza di medico ed miei studi di filosofia della mente buddhista ho elaborato, e qui propongo, alcune proposte classificative utili sia alla clinica che al ragionamento filosofico.
Dal punto di vista della biologia, ciò che conosciamo del mondo esterno (una volta accettata, con realismo filosofico, l’esistenza di questo “mondo esterno”) e ciò che percepiamo del nostro corpo ci è veicolato dai nervi, cioè da una sorta di "cavi elettrici" di natura organica, cellule altamente specializzate, che mettono in contatto le zone che ricevono gli stimoli (i recettori) con il cervello, anch’esso composto da cellule nervose, il quale li percepisce e li rielabora
Obiettivo di questo articolo è la classificazione dei fenomeni soggettivi che emergono da tale rete neurale, impostandone una definizione razionale che può semplificare il linguaggio delle disquisizioni psicologiche, cliniche o filosofiche.
 Da un punto di vista soggettivo, introspettivo, i costituenti fondamentali della nostra esperienza (che vorrei chiamare atomi esperienziali o atomi mentali) sono ascrivibili a otto tipi di fenomeni:
-vista, udito, gusto, olfatto 
-sensazioni corporee (il quinto “senso”, che a mio avviso non deve comprendere solo il “tatto”)
-ricordi sensoriali
-immaginazioni sensoriali
-pensieri
Il motivo per cui è stato scelto il termine “atomi” è dovuto al fatto che nessuno di questi elementi può essere scomposto in elementi più semplici: la vista non può essere scomposta nella somma di elementi non visivi, l’udito non può essere scomposto in fenomeni non uditivi etc (contrariamente alle emozioni, per esempio, che sono la somma di pensieri e sensazioni).
Prima di passare alla lettura filosofica di questi fenomeni,  facciamo un utile ripasso dell’anatomia soggiacente; vediamo cioè a cosa corrispondono nella struttura del nostro corpo queste esperienze.
I primi quattro sensi, detti anche sensibilità specifica, devono la loro esistenza, oltre che agli organi di senso (occhi,  orecchie,  papille gustative, strutture nervose dell’olfatto) a vie nervose molto particolari: si tratta dei nervi encefalici o nervi cranici, ovvero nervi che dalla periferia del nostro corpo accedono direttamente al cervello (mentre gli altri nervi passano prima dal midollo spinale e si chiamano quindi nervi spinali). 
Il primo paio di nervi cranici  veicola al cervello i messaggi dell’olfatto, il secondo paio quelli della vista, il settimo, il nono e il decimo paio quelli del gusto, l’ottavo quelli dell’udito e la sensibilità vestibolare (cioè l’equilibrio).
Non ci addentriamo nello studio delle zone cerebrali deputate a ricevere queste informazioni.
Le sensazioni corporee appartengono a quella che in Anatomia Umana viene definita "sensibilità generale", per distinguerla dalla "sensibilità specifica",  propria dei primi quattro sensi appena citati.
La sensibilità generale comprende a sua volta:
-la sensibilità somatica, che riguarda la parte più “periferica” del nostro corpo: pelle, muscoli, tendini, ossa (questa sensibilità, se vogliamo andare per il sottile, è a sua volta distinta in esterocettiva- stimoli tattili sia termici che dolorifici- e propriocettiva- proveniente da muscoli, tendini e articolazioni).
-la sensibilità viscerale, cioè proveniente dai visceri (esistono recettori capaci di percepire variazioni chimiche, variazioni pressorie, variazioni di concentrazione nei nostri visceri e nei nostri vasi sanguigni). Le informazioni provenienti dai visceri (di cui solo una piccola parte diviene cosciente) sono condotte al cervello da un’altra ricca famiglia di nervi: i nervi del sistema simpatico e parasimpatico.
Le vie nervose della sensibilità generale comprendono quindi i nervi spinali (che afferiscono al midollo spinale) e alcuni dei nervi encefalici.
Le sensazioni corporee, come vedremo (soprattutto- ma non solo- quelle di natura viscerale), compongono insieme ai pensieri la colonna portante di quei fenomeni che chiamiamo "emozioni”.
Analizziamo quindi in una prospettiva interiorista (da ora in avanti chiameremo “interiorismo” il nostro sforzo classificatorio basato esclusivamente sull’introspezione) le sensazioni corporee.

LE SENSAZIONI CORPOREE
Cosa sono le sensazioni corporee (termine più chiaro rispetto all’equivalente termine medico “sensibilità generale”)? 
Si tratta di zone spazialmente definibili in rapporto al nostro corpo (zone che hanno quindi una connotazione anatomica) di cui si avverte la stimolazione. 
Usando una terminologia letteraria questa stimolazione ha le caratteristiche di un “flusso di energia”, di una “pulsazione”, di un “vento interiore” (terminologia usata dai meditanti tibetani); ma per voler mantenere chiarezza e intelligibilità dovremo essere meno fantasiosi e limitarci a parlare di una zona o di un insieme di luoghi anatomicamente definiti (almeno in modo sommario) che vengano percepiti senza l’ausilio degli altri quattro sensi.
Facciamo alcuni esempi.
Tocco il tavolo con una mano: avverto una stimolazione a livello delle parti della mano che sono appoggiate. Difficile descrivere in modo particolarmente preciso questa stimolazione: avvertirò la temperatura più o meno fredda del tavolo, il suo carattere più o meno liscio, ma in ogni caso se volessi privare della componente cognitiva questa sensazione, se cioè non avessi mai imparato i concetti di caldo, freddo, liscio o ruvido, se non sapessi cos’è un tavolo, ma sapessi solo descrivere geograficamente i luoghi del mio corpo, dovrei dire solo che avverto una stimolazione di molti punti anatomicamente posti in quella sede.
Altro esempio:un attacco di cefalea. Se ci isoliamo dal concetto di dolore e dall’emozione connessa, potrò descrivere a un osservatore esterno alcuni punti del mio cranio che sono stimolati, in modo più o meno pulsante: anche in questo caso se escludiamo alcuni connotati emotivi o cognitivi (“insopportabile, doloroso, gravoso”) che però- e questo punto lo analizzeremo meglio in seguito- non sono parte integrante del fenomeno descritto, posso dire poco di più. Tolta la parte cognitiva e volitiva, resta una zona anatomica stimolata in più punti in un modo che si può descrivere solo per analogie e senza una grande precisione.
Concludendo, il connotato fondamentale delle sensazioni corporee, ciò che le distingue in modo netto dalle altre sensazioni (visive, uditive, etc…) è il fatto che sono anatomicamente localizzabili, sono cioè in diretta relazione con il nostro schema corporeo mentale, e lo sono senza l’ausilio degli altri sensi.

I PENSIERI 
Siamo abituati a molteplici usi di questa parola, per cui può essere che la mia proposta terminologica appaia riduttiva. Non dobbiamo però dimenticare che qui stiamo parlando delle componenti più semplici ed elementari delle costruzioni della mente umana, stiamo parlando delle “lettere”, e non bisogna confondere le lettere con le parole. 
I pensieri semplici, sotto definiti, disponendosi in milioni di combinazioni diverse, danno luogo a conversazioni, creazioni letterarie e scientifiche, conversazioni eccetera. La definizione non riguarda queste creazioni della mente umana, ma i singoli pensieri da cui ogni creazione o conversazione o idea umana è composta.

Per introdurre la proposta elaborata in questa sede riportiamo la definizione di John Haldane (11): C’è accordo tra il realista e lanti-realista che i pensieri siano enti cognitivi con particolari contenuti intenzionali. In questa scelta la parola intenzionale” non va letta con laccezione colloquiale di intenzione ma piuttosto con il suo profondo significato filosofico, analizzato già (12) da antichi pensatori come Avicenna, Averroè e Tommaso dAquino, per il quale si rimanda ai testi del settore.

Un pensiero è qualunque fenomeno interiore appaia al di fuori dei sensi e della loro immediata traccia mnestica. 
La definizione è valida anche ammettendo la verità che qualunque pensiero sia reso possibile dalla memoria stessa. Infatti se è vero che, con gli empiristi,  dobbiamo convenire che anche il pensiero più astratto non è che un ricordo di precedenti pensieri meno astratti e che questi ultimi sono il ricordo di esperienze sensoriali precedenti, tale ricordo è a volte così remoto, e il pensiero così rapido, da manifestarsi soggettivamente come fenomeno mentale diverso dalle tracce mnestiche. Tuttavia la mia opinione è che si tratti ancora di memoria, una memoria che è capace di generare nuovi significati  principalmente per la sua capacità di associare (come voleva Hume) eventi mentali che presentano le caratteristiche di somiglianza, di contiguità spazio-temporale, eccetera. Di questa capacità è necessario procedere a un’analisi dettagliata ma non nel breve spazio di questo articolo.
Il pensiero è quindi qualcosa che, pur nascendo dalle percezioni sensoriali, va oltre le percezioni, le immaginazioni e i ricordi, in quanto è una ulteriore rielaborazione e classificazione del contenuto mentale: figlio dei sensi, riesce però a trascenderli, fino ad essere in grado di studiarne le leggi.
E' importante capire che questo "messaggio non sensoriale” detto “ pensiero” non viene sempre percepito come insieme di parole, ma è in genere una percezione pressoché istantanea che solo in seguito e solo in alcuni casi viene "tradotta" in parole.
Il concetto è pregnante, quindi va sottolineato: i pensieri non sono sempre formulati con parole nella nostra mente. Questa è esperienza comune di chiunque abbia una certa capacità introspettiva. Potremmo dire che, diversamente dall’incipit del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Verbo”) nella componente cognitiva della mente “In principio è il significato” mentre il “verbo”, scritto questa volta con la minuscola, viene successivamente, o in contemporanea.
Probabilmente quando esseri capaci di elaborare azioni complesse ma incapaci di parlare, come le scimmie, riescono a svolgere un compito piuttosto ingegnoso, hanno vissuto dei pensieri privi di parole, ma non potremo mai saperlo realmente perché la certezza potrebbe venire solo dalla comunicazione verbale di tale esperienza. (Non sperimentando il vissuto di una scimmia non potremo mai sapere se tali compiti vengono svolti come li svolgerebbe un automa oppure con una percezione simile alla nostra del proprio vissuto mentale, anche se io propendo per quest’ultima ipotesi).
Un sottogruppo particolare dei pensieri sono le volizioni, cioè quei pensieri che spingono all’azione: “Devo fare questo…”, “Ora agirò così…”, “Voglio questa cosa…”, etc…Possiamo anche chiamarle “pensieri motivanti”.

LE EMOZIONI 
L’emozione è l’insieme di una sensazione corporea e di un pensiero ad essa strettamente associato, in cui quest'ultimo di solito ha un contenuto che spinge a un certo comportamento, è cioè un pensiero motivante (“Devo assolutamente fare questo”, “E’ necessario che…”, “E’ intollerabile che”, “E’ ottima cosa fare così…”, “Devo fuggire da questa cosa…”, “Questo oggetto è desiderabile, devo averlo”, etc…) .
Quindi, schematicamente: 
emozione=sensazione corporea+volizione.
Per quanto detto il fenomeno emozione comprende solo due atomi esperienziali: quello cognitivo (i pensieri) e quello corporeo (somatico e viscerale). Gli altri sensi possono scatenare un’emozione, ma non sono parte integrante del fenomeno “emozione”.
Questa definizione è una novità che può portare molti frutti. 
Il primo frutto ha a che fare con la ricerca psicologica futura: se l’emozione è una sensazione corporea associata a un pensiero, e se la sensazione corporea ha sempre-per definizione- una sua anatomia, qual è l’anatomia delle emozioni?
Esistono delle conformazioni “geografiche” delle sensazioni che tipicamente si associano a un’emozione?
Sicuramente sì, anche se la ricerca non è ancora andata così lontano da tracciare una vera “mappa” delle emozioni. Un primo interessante tentativo è stato fatto in una ricerca apparsa su Proceedings of The National Academy of Science (3).
E’ esperienza di tutti coloro che si dedicano all’introspezione il fatto che le emozioni si localizzino nel nostro corpo. Pensiamo alla frase: “Ho provato una profonda gioia nel cuore”. Non è indice forse del fatto che alcune forme di gioia hanno una componente “toracica” spiccata? (Per la definizione di torace, di addome, e di altri termini anatomici qui usati vi rimando ai testi classici di anatomia).
Se gruppi di ricercatori adeguatamente addestrati all’auto-osservazione si dedicassero allo studio di questo fenomeno forse potremmo disporre di una mappa sia figurativa che descrittiva, in cui una certa forma di gioia venga descritta (per fare un esempio fantasioso) come “prevalentemente toracica anteriore, con una lieve componente cervicale anteriore e una lieve tardiva componente addominale”. Certe forme di paura o di preoccupazione potrebbero svelare una predominante componente cranica (“Ci ho pensato così tanto che mi scoppiava la testa!”), e via di questo passo. 
I ricercatori potrebbero cioè scoprire l’analogo occidentale di quello che nei testi orientali viene di volta in volta chiamato “Chakra”, “Vento interiore”, “Canale energetico”, eccetera. 
Inoltre queste osservazioni potrebbero contribuire a spiegare meglio le tanto citate “somatizzazioni” di problemi psicologici. Non mi stupirebbe scoprire, sempre lavorando di immaginazione, che l’eccesso di emozioni prevalentemente craniche porti qualcuno a soffrire di cefalea.
Il secondo frutto riguarda la possibilità, per chi si dedica a una corretta introspezione, di agire sulle emozioni problematiche e trasformarle. Avendo capito che l’emozione è composta da due parti si può cercare di agire sull’una e sull’altra in modo forse più consapevole ed efficace che non se si considerasse l’emozione un’entità non scomponibile, indefinita e oscura. Per esempio si può lavorare sul pensiero che si associa all’emozione, contrastandolo con un pensiero differente, e si può lavorare sulla sensazione, imparando ad accettarla, a non amplificarla, a lasciarla passare, etc… Ma sulle possibili applicazioni della psicologia interiorista è opportuno diffondersi in un’altra sede.

RICORDI SENSORIALI E IMMAGINAZIONI SENSORIALI
La definizione di ricordo sensoriale data dalla psicologia interiorista è sovrapponibile a quella del linguaggio comune, ed è con ogni probabilità quello che Aristotele e Tommaso d’Aquino chiamavano “Phantasmata”:
si definisce ricordo sensoriale un'esperienza simile alla percezione sensoriale, ma con le seguenti caratteristiche:
1) è associata alla convinzione che sia avvenuta in passato ed
2) è in genere meno vivida della percezione stessa.

Invece l'immaginazione sensoriale è un'esperienza che, come il ricordo sensoriale, è simile alla percezione sensoriale e, sempre come il ricordo, è meno vivida della percezione stessa ma- a differenza di quest'ultimo- è associata alla convinzione che non sia avvenuta in passato ma che sia una creazione della nostra stessa mente. 
Se cerco di rappresentarmi mentalmente  una faccia con una scarpa al posto del naso, si formerà nella mia mente una certa immagine. La percezione di tale immagine viene detta "immaginazione sensoriale" (in questo caso riguardante un solo senso: la vista).
Su questo punto David Hume (2) si pronunciava diversamente, attribuendo alle immaginazioni sensoriali un carattere meno vivido dei ricordi. Io non credo che sia così. Alcuni meditanti buddhisti si allenano a costruire mentalmente delle immagini e da alcuni testi sembra che riescano a visualizzarle in modo molto nitido. Nikola Tesla  nella sua autobiografia(4), riferisce del carattere morbosamente vivido che avevano per lui alcune immaginazioni. Il dato è confermato da Oliver Sacks nel saggio <<Il fiume della coscienza>>, rivelando che in un libro autobiografico aveva  in buona fede riportato un episodio della sua infanzia, per scoprire solo in seguito di non aver mai assistito personalmente a tale evento. Quindi la strada da percorrere se vogliamo distinguere le immaginazioni dai ricordi è proprio quella di rilevare come i ricordi, essendo inseriti in una cornice vissuta e quindi in una trama di certezze, sono associati a una convinzione di verità. Ma intrinsecamente, a livello  fenomenologico, sono indistinguibili.
Non si è ancora parlato di un altro tipo di ricordo: il ricordo esperienziale: la nostra memoria di ciò che abbiamo detto e fatto, la nostra storia, eccetera, ma tale ricordo non richiede una classificazione a parte, in quanto i ricordi che non siano puramente sensoriali o raggruppamenti di ricordi sensoriali, non sono altro che un sottogruppo dei pensieri.


L’ATTENZIONE
Scrive Borges (5): <<Il  fatto stesso di percepire, di fare attenzione, è di carattere selettivo: ogni nostra attenzione, ogni nostra fissazione della coscienza, comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa>>.
Abbiamo fin qui passato in rassegna tutti i componenti essenziali della nostra vita, gli “atomi esperienziali”.
Abbiamo rilevato che le emozioni non appartengono agli atomi esperienziali: sono piuttosto delle “molecole”, essendo l’insieme di due atomi esperienziali (pensieri e sensazioni).
Ora però dobbiamo concentrarci su un aspetto di questo “teatro” che non abbiamo citato prima, ma non certo perché meno importante: la luce, l’occhio di bue, o fuori di metafora l’attenzione. 
L’attenzione è la capacità della nostra mente di selezionare e soffermarsi su uno o più fenomeni esperienziali. E’ al di fuori dei contenuti dell’esperienza in quanto ne è il regista, o il fotografo che punta l’obiettivo in un punto preciso di un vasto panorama.
I meccanismi neurali che soggiacciono all’attenzione sono complessi, e strettamente collegati ai meccanismi che regolano sonno e veglia. 
Da un punto di vista interiorista l’attenzione è semplicemente la nostra facoltà di scegliere e mantenere un oggetto come centro della nostra stessa esperienza istantanea.. È intuitivo capire che l’attenzione, quando non è automatica, è conseguenza di un pensiero volitivo precedente.
Quando prestiamo attenzione a qualcosa, nella nostra mente sono presenti contemporaneamente due tipi di fenomeni: l'oggetto su cui ci concentriamo (che con una terminologia usata da Lloyd Morgan prima e da William James poi (6) possiamo definire oggetto focale) e gli oggetti di sfondo: ossia l'insieme di quei fenomeni- comprendenti i pensieri e tutti e 5 i sensi- che non sono desiderati dalla nostra volontà istantanea, ma rimangono sullo sfondo, colorando come una colonna sonora la nostra esperienza del momento oppure completando attraverso comportamenti automatici la nostra attività del momento. Essi sono stati chiamati da Morgan "oggetti marginali", ma qui useremo il termine "oggetti di sfondo".
Se guardando un film diciamo: "Questa scena mi ha commosso" intendiamo dire: “la percezione della scena (oggetto focale) era accompagnata da alcuni oggetti di sfondo, e fra questi vi erano le sensazioni e i pensieri che vengono "letti" dalla mia mente come “commozione”
Ora: se lo sguardo dell'osservatore non si limita alla scena del film ma decide di osservare contemporaneamente sia la scena sia le proprie sensazioni interiori, ecco che le percezioni e i pensieri legati alla commozione divengono anch'essi "oggetto focale", ed è possibile conservare una certa distanza e lucidità rispetto a queste percezioni, divenendo "osservatori non commossi della commozione".
Matthieu Ricard si è espresso più o meno così (cito a memoria avendo smarrito la fonte): "La mente che guarda la tristezza non è triste, la mente che guarda la rabbia non è arrabbiata".
Questo schema è sicuramente un modello semplificato: l’attenzione molto spesso oscilla continuamente dall’oggetto focale agli oggetti di sfondo e ciò che rende “focale” un oggetto potrebbe essere semplicemente la maggior quantità di istanti trascorsi “su di lui”. 
Si tratta quindi solo di un modello pragmatico, e non della verità neurologica.
Per concludere osserviamo che l’attenzione non fa parte degli atomi esperienziali, ma piuttosto di quelli che definiremo come “poteri”.

I POTERI
Anche se abbiamo classificato attraverso gli otto atomi ogni fenomeno del nostro mondo mentale, è necessario precisare il modo in cui questi atomi possono interagire fra loro: quali sono le connessioni fra gli atomi? Come possono i pensieri influire sulle sensazioni, i ricordi agire sui pensieri, etc? 
Le interazioni sono molteplici ed estremamente complesse.
Qui citeremo senza ulteriore analisi i nostri “poteri”, cioè le relazioni causali tra un pensiero volitivo e le eventuali modifiche del mondo mentale connesse a tale pensiero.
Osservando direttamente la mia esperienza osservo che i poteri sono di cinque tipi:
Potere attentivo (l’attenzione)
Potere mnemonico (lo esercitiamo tutte le volte che al desiderio di evocare un fenomeno del passato appaiono alla mente i ricordi sensoriali e cognitivi adeguati a tale desiderio)
Potere evocativo (quando  al desiderio di immaginare un fenomeno non verificatosi in passato appaiono alla mente le conseguenti immaginazioni sensoriali)
Potere motorio (tutte le volte che desidero attuare un movimento corporeo e tale movimento si compie)
Potere analitico (l’applicazione delle leggi della logica ai fenomeni; anche se poi le leggi della logica forse non sono altro che astrazioni dalle regolarità osservate nell’esperienza, cioè rielaborazioni dei propri ricordi: il potere analitico sarebbe quindi un sottoinsieme del potere mnemonico ma su questo punto mi riservo di riflettere meglio in contributi futuri).



LA COSCIENZA 

La parola “coscienza” è un esempio di quei termini che vengono usati con accezioni mobili e diversificate, al punto di spingerci a valutare la scelta di eliminare il termine dalle discussioni: data l’esistenza degli atomi esperienziali e dei poteri, è necessario definire anche la funzione “coscienza”? Non bastano gli elementi citati per descrivere ogni aspetto basilare dell’esperienza umana?
Per ponderare questa ipotesi immaginiamo la differenza tra una persona cosciente e una incosciente: che cosa le distingue? Pensiamo a tre situazioni esemplificative: 
1)Se la persona può interagire col mondo esterno (non è paralizzata) allora il suo essere cosciente è valutabile con la sua capacità di rispondere finalisticamente a stimoli ricevuti, benché non si esaurisca in questo, ma comprenda anche la facoltà di percepire e ricordare i propri fenomeni interiori (sogni, sensazioni, pensieri...). Quindi rispetto all’incosciente la persona cosciente ha tre facoltà fondamentali: percepisce, ricorda, interagisce.
2)se è completamente paralizzata (come nei pazienti locked-in o nei pazienti erroneamente curarizzati senza adeguata anestesia generale) il vissuto della persona sarà un flusso di pensieri e di materiale dei cinque sensi. La persona cosciente e paralizzata pertanto percepisce e ricorda, senza interagire (i “locked-in” comunicano solo con gli occhi). Da studi sulla distinzione fra stato vegetativo e stato “di coscienza minimale” emerge che un paziente con danno cerebrale severo può essere totalmente privo di interazioni col mondo ma avere ancora pensieri, percezioni e volizioni (8), e perfino qualche “potere”.
 3)In totale assenza di funzioni mnemoniche, come forse avviene in una demenza molto avanzata, tale “flusso” non sarà affatto simile allo “stream of consciousness” joyciano (7) perché i monologhi interiori anche più sconnessi prevedono la memoria: senza alcun ricordo percepito ogni fenomeno sarebbe disgiunto da quello immediatamente precedente e successivo e nessun pensiero sarebbe possibile perché pensare una frase -semplificando molto- implica ricordare ad ogni parola tutte le parole precedenti, e anche il pensiero rapido privo di parole non può sorgere senza materiale depositato in memoria. Ma è davvero possibile percepire senza ricordare? Ovviamente sì se manca solo la memoria a medio e lungo termine: ciò succede tutti i giorni. Ma se mancasse anche la possibilità di memoria a brevissimo termine? In questo caso si tratterebbe di un flusso di fenomeni sensoriali con scarsa o nulla possibilità di pensiero, ma forse anche in questo flusso, difficile da immaginare (che  nessuno potrebbe testimoniare e che il soggetto non potrebbe testimoniare neppure a se stesso) vi è l’embrione di ciò che tendiamo a chiamare coscienza. Quasi al limite della nostra idea tradizionale di percezione, in cui vi è un soggetto e un oggetto di percezione, qui, nell’uomo totalmente privo di memoria, sembrano apparire solo fenomeni, svincolati da un’organizzazione mentale catalogante. 
A noi la decisione, si tratta solo di una convenzione, se chiamare anche questo “coscienza”: io sono per il sì, per motivi pratici, dato che vanno considerati esseri senzienti e fratelli senza alcuna esitazione anche gli sventurati che smarriscono quasi del tutto i propri ricordi, e chiamarli “privi di coscienza” o “dotati di coscienza minimale” potrebbe portare a delle aberrazioni.
Questi ultimi soggetti sono casi limite, forse solo immaginari perché è indimostrabile una perdita totale di ogni forma di memoria. Essi qualora esistessero, percepirebbero senza ricordare e senza interagire.
Insomma sembra che il minimo comun denominatore delle situazioni di coscienza descritte sia il fatto di percepire: faremo dunque in modo che nella nostra definizione una singola percezione sia sufficiente a diagnosticare la presenza di coscienza, almeno istantanea. 
Percorrendo mentalmente gli esempi citati e gli ovvi esempi di assenza della coscienza, troviamo che è sufficiente la presenza di un solo atomo esperienziale per far sì che si possa parlare di coscienza.
Dunque il nostro rasoio di Occam sembra suggerire questa equivalenza:
Coscienza = “Presenza di almeno un atomo esperienziale”.

Con questo piccolo “manifesto terminologico” mi auguro di ispirare e invogliare gli studiosi e i clinici ad approfondire gli aspetti soggettivi della coscienza, che possono essere indagati mediante pratiche come la meditazione e il training autogeno. Una corretta definizione di tutti gli elementi del proprio vissuto è alla base di ogni ricerca filosofica razionale. Può essere che partendo da questi provvisori postulati si arrivi a comprendere la necessità di ampliarli o modificarli, ma credo possano essere un buon punto di partenza.
Un’ultima precisazione si rende necessaria ora che tale discorso è impostato: la mia ricerca attuale (in attesa di conferme da altri ricercatori) mi permette di unificare il gusto e l’olfatto  alle sensazioni corporee (essendo dal punto di vista delle definizioni di cui sopra indistinguibili) e di unificare, per quanto visto nei paragrafi dedicati, i ricordi alle immaginazioni sensoriali.
Gli atomi mentali sono pertanto in un’analisi più approfondita non otto ma cinque: vista, udito, sensazioni corporee,pensieri, e “fantasmi” (o tracce mnestico-immaginifiche).

         Davide Corvi, 4/4/2020


BIBLIOGRAFIA:
1)Balboni,  ANATOMIA UMANA, edi-ermes 1987, volume 3
2)Hume, TRATTATO SULLA NATURA UMANA
3)BODILY MAPS OF EMOTIONS, Proceedings of The National Academy of Science  January 14, 2014 111 (2) 646-651(Lauri Nummenmaaa,b,c,1, Enrico Glereana, Riitta Harib,1, and Jari K. Hietanend)
4)N. Tesla, LE MIE INVENZIONI Autobiografia di un genio   La mala parte
5) J.L.Borges, DISCUSSIONE Tutte le opere, Mondadori
6)W.James, DISCORSO AGLI INSEGNANTI E AGLI STUDENTI SULLA PSICOLOGIA E SU ALCUNI IDEALI DI VITA
7)J.Joyce, ULYSSES
8) Owen AM, et al. Science. 2006, DETECTING AWARENESS IN THE VEGETATIVE STATE
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martedì 18 febbraio 2020

L’arte di dubitare di tutto

L’ARTE DI DUBITARE DI TUTTO
Se c’è una cosa in cui mi posso dire maestro, mio malgrado, è la terribile e meravigliosa capacità di dubitare di tutto. Devo precisare che però non sono così certo della frase precedente, sentendomi in linea con quella battuta citata da Umberto Eco: “Un tempo ero una persona indecisa, ma ora non ne sono più tanto sicuro”
Questo talento, ammesso che io lo abbia, mi è stato dato da una malattia mentale, il disturbo ossessivo compulsivo, un disagio che un giorno vorrei analizzare e commentare per iscritto.
Chi mi è fratello in questa anomalia esistenziale sa cosa significhi applicare davvero alla vita le massime degli scettici, comportandosi in molte circostanze come Agrippa, di cui Lorenzo Corti scrive:

“Di Agrippa non sappiamo quasi nulla, ma sia Sesto che Diogene gli attribuiscono una delle più notevoli creazioni dello scetticismo antico: i “cinque modi di sospensione del giudizio”. Supponi di star per dare il tuo assenso a una proposizione P. O hai qualcosa da dire a sostegno di P, o assolutamente nulla. Ma se non hai nulla da dire a sostegno di P, non devi dare il tuo assenso a tale proposizione (modo ipotetico). Se invece hai qualcosa da dire a supporto di P, ad esempio Q, allora o Q coincide con P, oppure no. Se Q coincide con P, allora devi sospendere il tuo giudizio su P, in quanto stai usando un argomento circolare, non valido (modo della reciprocità). Se Q non coincide con P, allora o non hai nulla da dire a sostegno di Q (e in questo caso, devi sospendere il giudizio su Q e di conseguenza su P), o hai qualcosa da dire in suo favore, diciamo R. Ora possiamo dire di R quanto abbiamo detto a proposito di Q, e potrai evitare di sospendere il giudizio solo introducendo una nuova proposizione S; e così via all’infinito. Ma non puoi andare all’infinito (modo del regresso all’infinito), perciò non c’è via d’uscita: devi sospendere il tuo giudizio su P.”

Però è abbastanza chiaro che sospendere il proprio giudizio su tutto significa smettere di agire, smettere di vivere, ed è inoltre valida l’obiezione dei filosofi anti-scettici: “Se dubiti veramente allora devi dubitare del tuo stesso dubbio”. 
Come si può evitare la paralisi che ineluttabilmente ferma il malcapitato, improvvisamente dubbioso sui suoi stessi ricordi, dubbioso su ciò che ha appena fatto, su ciò che ha pensato, su ogni fenomeno sensoriale o mentale? Non ha forse ragione l’ossessivo, quando afferma che non si può dimostrare nulla, che non si può testimoniare nulla, perché ogni ricordo potrebbe essere falsato o immaginario, e quindi -come è noto anche ai profani- corre a ricontrollare di aver spento il gas ben sapendo di averlo già fatto, perché in realtà...come si fa a sapere di saperlo? Non è forse tutto vuoto, come insegna il Prajnaparamita Sutra?
 Dall’impasse  psicologico si può sicuramente uscire (come mostrato anche nello stupendo manuale di auto-aiuto “Break free from OCD” di Salkosvskis); questo però vuole essere un articolo filosofico, una riflessione su dogma e dubbio, e non una serie di consigli clinici per soggetti ansiosi: ho citato questo disturbo psichiatrico solo perché trattasi della malattia del dubbio per eccellenza.
Vivere senza essere certi (o quasi certi) di nulla non è possibile, a dispetto di chi finge di riuscire a farlo ma -essendo solo un dilettante -in realtà mente a se stesso. Qualunque gesto verrebbe minato dall’incertezza sulle proprie motivazioni, ogni secondo dall’incertezza sui secondi precedenti.
Allora bisogna credere a tutti i costi a qualcosa, ma a cosa? 
Come è possibile costringersi a credere, se le radici del credere affondano nell’analisi razionale di ciò che i sensi forniscono, e tale materiale non è mai veramente fondato?
Per quanto riguarda la mia esperienza, da lunghi e meditati studi ed esperimenti soggettivi sono giunto alla conclusione che l’unico fondamento del credere debbano essere, oltre ai fenomeni sensoriali stessi, le proprie “divinità”. In altre parole, ciò che uno sceglie come Dio della propria esistenza. Ho capito insomma che chiunque ha un “dio”, che è il fondamento di tutte le sue azioni: solo chi non agisce non ha un dio. Che sia il benessere, il successo, il denaro, uno o più “dei” muovono le fila di ogni essere. Nel mio caso sapevo che questo “Dio” aveva a che fare con l’altruismo.
Posta questa base, ho finalmente stabilito due straordinari campi d’azione: il campo in cui dare libero sfogo al dubbio devastatore e il campo in cui aggrapparmi alla mia fede con tutto il cuore. 
Tutte le azioni e gli oggetti che sono declinazione dell’altruismo- così dico a me stesso- siano al centro della mia concentrazione, siano l’oggetto di Shamata, siano la fede incrollabile, mentre tutto il resto lo considererò come voleva Buddha: “come un sogno, un miraggio, una bolla di sapone”: non crederò a nulla di tutto ciò che appare al di fuori della sfera degli oggetti di consegna. 
Almeno credo.
Forse per questo i meditanti esperti dicono che la meditazione sulla vacuità non può andare disgiunta dalla compassione e viceversa, perché meditare solo sulla vacuità significa smettere di agire, precipitare in un Nirvana indistinto, nichilistico, narcisistico mentre meditare solo sulla compassione ci priva di quei benefici e di quella pace che derivano dalla totale accettazione “Dzogchen”.
Forse ho parlato troppo difficile. 
Facciamo un passo indietro: cosa mi sembra inapplicabile in alcune bellissime meditazioni buddhiste? Il fatto che, per esempio, quella mente totalmente aperta a tutto proposta da Longchenpa, se enucleata come spesso avviene da tutto il restante contesto Mahayana, non è compatibile con le azioni quotidiane, dove non possiamo essere indifferenti alle cose, non possiamo permetterci di essere avvolti da un oppio ideologico. 
Eppure qualcosa di quelle pagine e di quelle meditazioni (davvero straordinarie) possiamo portarlo con noi anche fuori dal monastero: basta capire che non dobbiamo considerare vuoti proprio tutti i pensieri, ma solo quelli che non riguardano l’azione che ci siamo predisposti a compiere. Scettici verso tutto, tranne l’azione del momento. E dato che quest’ultima deriva dall’amore altruistico, possiamo chiosare: “scettici verso tutto, tranne l’amore”.
Dopo questi pensieri è nata e si è consolidata con alcune esperienze una fede nelle divinità buddhiste, in particolare Tārā.

Davide Corvi 18/2/2020

martedì 26 novembre 2019

PUT ALL THE BLAME ON THE ONE

Si legge nell’”Allenamento Mentale in Sette Punti” di Geshe Chekawa (1102–1176), manuale in versi di istruzioni Kadampa per progredire spiritualmente, un verso sibillino:
“Put all the blame on the one.”
Nella versione italiana del commentario di Dilgo Khyentse Rinpoche allo stesso testo (Intrepida Compassione), la traduzione suona: “Biasimate una cosa soltanto”.
La chiave di lettura fornita dal maestro indica che si tratta di colpevolizzare un solo nemico, e che questo nemico è l’attaccamento al Sè.
Come è noto nel Buddhismo per essere felici è importante ridurre l’egocentrismo e aumentare l’altruismo. Porre il proprio “Io” al centro della propria costante concentrazione sarebbe un fattore in grado di aumentare le emozioni negative. In effetti è esperienza comune che la rabbia, la paura e il desiderio sorgano in relazione alla volontà di proteggere se stessi, di aumentare le proprie sensazioni positive e ridurre quelle negative. 
Ma perché non dovrei proteggere me stesso? Come conciliare questo insegnamento con la necessità di aver cura per esempio della propria salute? E perché mai dovremmo altruisticamente cercare di aumentare le sensazioni positive altrui e per noi stessi cercare quelle negative? Non è paradossale? 
In fondo questa massima kadampa richiama da vicino la predica di San Francesco sulla Perfetta Letizia, altrettanto incisiva, poetica e apparentemente paradossale.
Cercherò di interpretare in chiave psicologica questa contraddizione, senza sentirmi interiormente all’altezza di simili voli, ma con il duplice scopo di chiarire qualcosa a me stesso e suscitare nel lettore la mia stessa meraviglia.
Le sensazioni, qui descritte (il termine tecnico pali e sanscrito è “vedana”) sono, secondo Buddhadasa, dei veri tiranni (“Non siamo liberi,perchè in potere delle vedana. Le sensazioni ci costringono ad agire in un certo modo. Costringono la mente,la condizionano a pensare e ad agire come vogliono”, dai discorsi a Suan Mokkh). Secondo i medici invece possono essere sia buone che cattive: le sensazioni negative ci possono avvisare di qualcosa di nocivo per il nostro corpo, ma possono anche indurci a una pigrizia fonte di patologie o a una rabbia inutile e pericolosa, quelle positive migliorano la nostra efficienza ma possono anche indurci a dipendenze e varie infelicità. Insomma l’atteggiamento corretto sarebbe quello di porsi un po’ al di sopra delle proprie sensazioni e capire quando  concedersi le positive, quando accogliere le negative e così via, ovviamente nell’ottica di un benessere globale (quindi mirando in ultima analisi a ridurre la media delle negative e aumentare la media delle positive [1]).
Se le nostre volizioni mirano costantemente e ossessivamente al piacere, inevitabilmente sorgerà la frustrazione derivante dagli ineluttabili ostacoli della vita e dalla terribile “assuefazione edonica”, che ci rende meno deliziosi molti tipi di piaceri una volta raggiunti e replicati. D’altro canto anche la costante fuga dalle sensazioni di dolore e di fatica, aumenta l’afflizione stessa perché la mente si allena con forza a questa fuga, e diviene intollerante e viziata. 
Dunque la strategia giusta dovrebbe contrastare questi fallimenti della nostra psicologia, iniziando ad apprezzare i lati positivi del negativo, come fanno gli sportivi in merito alle fatiche fisiche.
Apprezzo una sensazione negativa, perché 1) è allenante; 2)perché apprezzandola ridurrò la mia schiavitù; 3)perché saper accettare il negativo è a volte indispensabile per fare del bene alle persone che amiamo e per comportarci correttamente verso il prossimo; 4)perché se iniziamo ad apprezzare il negativo, quanto più sarà gioioso per noi il positivo, quando si presenta?
In quanto a quest’ultimo, dovrei forse evitare di cercarlo a tutti i costi, apprezzarlo senza troppo attaccamento, sviluppando maggior interesse per i tipi di gioia che sono meno soggetti ad assuefazione e dipendenza (interessi culturali, sportivi...).
Per me quindi il nemico non è tanto la propria persona, ma quel piccolo demone viziato (“l’animale che mi porto dentro” di Battiato) che non sopporta le frustrazioni e non sa soffrire per gli altri.


Note:
  1. Forse, se interpreto correttamente gli stadi finali della meditazione secondo i testi sacri, il perfetto Buddha non avrebbe più alcun legame con le sensazioni, ma questo può essere un modo di preferire una totale pace a una costante oscillazione tra positivo e negativo: decisamente qui si sta andando oltre la mia comprensione.