mercoledì 22 ottobre 2025

Pratiche per chi è malato e per chi prova dolore

PRATICHE PER CHI È MALATO E PER CHI PROVA DOLORE 

(note tratte dalle sessioni di Domanda e Risposta con Garchen Rinpoche e Khenpo Tenzin; ho aggiunto alcune note dall’ipnosi medica)


Premessa importante: queste pratiche (che sono principalmente buddhiste, ma non solo, e che con opportuni accorgimenti possono essere esportate alle altre religioni) non vogliono spingere a gestire il dolore soltanto con la meditazione: rimane sempre essenziale rivolgersi a un medico per le proprie malattie. Tuttavia, nei momenti in cui la malattia dovesse provocare una sofferenza che momentaneamente non è controllata dalla terapia correttamente impostata, ecco cosa può fare un praticante.



1)KARMA

“Quando sei molto malata non è necessario che reciti una Sadhana, ma puoi anche solo ricordare la Divinità, pensare alla Divinità. Idealmente, ecco come praticarlo. Anche se la nostra malattia è molto dolorosa, essa è in realtà anche un buon amico, perché sta purificando il nostro Karma negativo, ciò che abbiamo accumulato, le emozioni afflittive. Quindi in ogni caso avremmo dovuto purificarlo prima o poi. Ora, essendo malata e sofferente stai purificando tutto questo Karma negativo, tutti questi oscuramenti. Questa è la prima cosa da capire, ma se questo fosse molto difficile da portare alla mente, porta semplicemente la mente alla Divinità” [vedi sotto]



2)PRATICA DELLA DIVINITÀ 

“Pensa alla Divinità, visualizzandola però fuori da te stesso, nello spazio: proietta la tua mente fuori, nello spazio e pensa alla Divinità come presente là nello spazio [altrove dice:”in una sfera di arcobaleno”,ndt] “Il mio dolore è in realtà mio amico”, tuttavia non riesci a sopportarlo, allora pensa alla Divinità, pensa alla Divinità con grande amore, fuori, nello spazio. E il tuo dolore si allevierà . Continua a ripetere questa pratica. Se pratichi così, anche se hai una malattia, essa non danneggerà la tua forza vitale: ciò significa che vivrai la tua vita fino al suo pieno compimento senza sperimentare una morte prematura. Anche se non sei capace di praticare sadhana o recitare mantra, semplicemente ricorda la Divinità in questo modo.”

[Minuto 39

https://www.youtube.com/live/QKyK2w96dfU?si=ySStFoJuNi6s28MB]



3) OM-AH-HUNG

“Recita l’Om-Ah-Hung vajra: quando inspiri pensa che tutte le benedizioni di tutte le forme di Buddha vengano inalate in forma di Om e si diffondano nel corpo e nella pancia, e poi pronunciando mentalmente “Ah” pensa che tutto il corpo è stato completamente bruciato, non vi è nulla di rimasto, e poi con “Hung” pensa che tutto ciò che c’è, è “Hung”, non vi è null’altro che Hung. Questo è di grande beneficio se lo pratichi ripetutamente. Io stesso ho molte malattie, molti disturbi e personalmente lo trovo di grande beneficio.”


3)G-TUMMO

“Praticando Tummo è positivo far in modo che i “venti” energetici dimorino a livello dell’ombelico. Un segno che i venti dimorano sempre a livello dell’ombelico è il fatto che, quando visualizzi la sillaba Hung all’ombelico, sentirai in tutto il corpo, con naturalezza, una sensazione pulsante connessa con “Hung” [ndr, sincrona con i polsi arteriosi]. Questa è la sensazione naturale di Om-Ah-Hung che vibra in tutto il corpo. Sono i venti sottili, non il respiro. Tutti i canali col loro “polso” riverberano con la sillaba “Hung-Hung-Hung…” e così via. Hung è il suono di questo “vento-energia”. Inoltre sei hai qualsiasi tipo di dolore o sgradevole sensazione, puoi visualizzare Hung in quella sede e sentire la vibrazione pulsatile attraverso quei canali, che sono i venti sottili, non i venti grossolani.”

[Gtummo e dolore, 1h e min26

https://www.youtube.com/live/QKyK2w96dfU?si=n6EppNKUAOoRYDVV]



4) TONGLEN (Khenpo Tenzin)

““Possano queste sensazioni dolorose purificare e alleviare le sensazioni simili di tutti gli esseri senzienti” Dicendo così spontaneamente generi la tua profonda, incommensurabile Bodhicitta, e inizi con questa motivazione ad accettare quel dolore, e accettandolo ti farà minor danno. Quando non riusciamo ad accettare queste sensazioni, cerchiamo di cacciarle via, e ciò accresce il dolore e il danno.”

[min 17 09sec https://www.youtube.com/live/yk26D2WdcvI?si=XDVa6vYhmQbrG5N4]


5)DISTRAZIONE meglio non  focalizzarsi sul dolore con self-grasping (non pensare per esempio “Io sono il mio mal di testa”) ma focalizzarsi su qualcosa di esterno


6)FIAMMA Immaginarsi fiamme nel corpo, specie nella sede dei dolori, visualizzarsi come infuocati. [Non trovo il link ma credo di averlo sentito dire a Garchen Rinpoche, ndt]


6b) Percepire tutti gli aggregati corporei come il proprio Yidam. (Khenpo Tenzin, Essence of Mahayana part 16 1h 18min)


7)PITTORE tecnica tratta dall’ipnosi medica (Regaldo, 2014). Immagina, mentre sei profondamente concentrato, che il tuo corpo sia una tela e tu sia il pittore. Dipingi le zone dolorose, proprio come se dovessi creare un quadro, che le rappresenti con la forma giusta e il colore giusto. Poi con calma ridipingi le stesse zone con il tuo colore preferito.


8)ACCRESCI IL SINTOMO 

Specie per la dispnea, sforzati per un attimo, in uno stato di concentrazione, di aumentare il tuo disturbo. (Regaldo, 2014). 


9) Pensare alla sofferenza degli altri esseri riduce la propria e fa crescere l’amore (Tara Enpowerment, 2020, min 36)


10) Visualizza il tuo Yidam laddove c’è la malattia: 

“Quando chiudo gli occhi, a volte appare un punto nero. Questo è in realtà un segno dell'inizio della cecità. Quei punti neri continuano ad apparire, e quando lo fanno, ricordo un insegnamento di Jigten Sumgon. Egli disse che si dovrebbe visualizzare la divinità nel luogo della propria malattia. Mi piace Tara, quindi penso che il punto nero sia Tara. All'inizio, c'era un foro piccolo come una capocchia di spillo all'interno del punto nero. Ora Tara appare sempre al suo interno. Come è questo da una prospettiva ultima? Normalmente, quando appariva il punto nero, avrei pensato: "Questo è un segno che diventerò cieco." La paura sarebbe sorta nella mente, e le cose sarebbero peggiorate. Ma quando appare Tara, non c'è paura; sono effettivamente felice. Quando sono felice, il mio sangue cambia, e la malattia scompare lentamente. Ha anche aiutato un po' il mio occhio. Questo è davvero ciò che accade, Tara appare. Per questo Jigten Sumgon disse: "Ovunque tu abbia una malattia, visualizza lì lo yidam; non pensare alla malattia." Ecco perché visualizzare la forma della divinità placa le impronte karmiche del corpo.”

Samadhi Empowerment, H.E. Garchen Rinpoche 2017


giovedì 16 ottobre 2025

Buddhismo e Cristianesimo: analisi dei parallelismi

 Buddhismo e Cristianesimo: analisi dei parallelismi 
Davide Corvi, praticante buddhista del lignaggio Drikung Kagyu*
Se le grandi religioni sapranno  dialogare con efficacia potremo proteggere davvero l’umanità dall’aridità di valori che la minaccia; in caso contrario, se i credenti resteranno dispersi in molti rivoli spirituali isolati, ciascuno convinto che le proprie verità non abbiano nulla a che spartire con le verità altrui, sarà forse più complesso irrigare questo terreno culturale in modo che non si trasformi in deserto.

Per le mie esperienze di vita e per il mio lavoro di palliativista, un settore in cui le domande spirituali sorgono prepotenti come un tuono estivo, sono portato a considerare come essenziali tutte le grandi religioni, ivi compreso l’ateismo morale (che, a differenza dell’ateismo “di comodo”, è una filosofia molto nobile); il lato spirituale dei malati, e in generale dei sofferenti, è parte della valutazione clinica di ogni medico che si occupa di malattie avanzate, essendo anche questo aspetto, la ricerca di senso, fonte di possibili sofferenze e parimenti di sollievo. 
Essendo inoltre marito di una donna cristiana, e padre di tre bambini che vengono educati secondo entrambe le tradizioni, senza che questo causi loro confusione o disorientamento, ho desiderio di portare il mio contributo in questo dialogo affascinante, pur non disponendo della cultura vasta e profonda dei geshe e dei teologi.
Il mondo è diventato sempre più interconnesso e le diverse forme di spiritualità non viaggiano più su binari separati, ma sembrano orientarsi nella direzione di un fecondo sincretismo (parola che potrebbe suscitare sospetto nei più ortodossi, i quali però dovrebbero ricordare che le loro stesse religioni sono spesso nate da sincretismi o da eresie: per esempio il buddhismo tibetano incorporò istanze induiste e bön, il cristianesimo trasformò l’ebraismo mediante le straordinarie innovazioni apportate da Gesù, e inserendovi in seguito elementi spirituali greci ed ellenistici). 
Molti hanno cercato punti di contatto e di dialogo fra la mia religione, il buddhismo, e la religione più diffusa in Italia, il cristianesimo, e alcuni, a mio avviso sbagliando, li ritengono approcci alla vita molto distanti.
 Le affinità fra i grandi monoteismi possono in effetti apparire più semplici da enucleare, mentre enigmatico o forzato potrebbe mostrarsi a uno sguardo disattento un punto di incontro fra la via di Shakyamuni e quella di Gesù di Nazareth. 
Prima di tutto esporrò quale ritengo sia lo scopo di questa ricerca di simmetrie etiche e mistiche.
Si potrebbe infatti osservare: non è meglio che ognuno si tenga stretta la sua fede senza gettare lo sguardo verso teorie alternative, che potrebbero farla vacillare o insinuare il seme del dubbio? Io credo in realtà che una fede che viene fatta vacillare da un confronto o da un ragionamento è una fede ancora debole, e tale confronto in realtà la può fortificare, se non è una fede di facciata.
I motivi del dialogo secondo me sono almeno tre:
1)il senso di fratellanza fra popoli aumenta con l’aumento del riconoscimento del valore dell’altrui credo; 
2) alcune riflessioni e alcune “tecniche” di preghiera possono essere validamente esportate da una religione all’altra, con beneficio e arricchimento reciproco. 
3)in un mondo che va sempre più verso una secolarizzazione e il suo inevitabile corollario, l’egoismo, è un vero peccato che chi crede davvero nello spirito di fratellanza non possa in qualche modo unire le forze e meditare o pregare insieme, scambiandosi opinioni.
Come testimonianza personale, posso affermare che alcune intuizioni cristiane mi hanno aiutato ad approfondire e perfezionare la mia filosofia buddhista, mentre alcune istanze buddhiste mi hanno fatto apprezzare e capire meglio il Vangelo.
Il punto chiave è saper enucleare il vero fondamento delle due religioni: questo permetterà un’analisi più chiara. Solo per ragioni di semplificazione e per mia ignoranza non includo qui nel confronto le altre grandi religioni: tuttavia personalmente ho profonda devozione, oltre che per le due dottrine qui trattate, anche per l’induismo e tutte le altre grandi religioni del mondo.
Dato che in realtà il buddhismo ha molteplici ramificazioni, d’ora in poi farò riferimento esclusivamente al buddhismo tibetano, sia per semplificare il discorso , sia perché è il buddhismo che conosco meglio (e per essere più preciso avrò uno speciale punto di riferimento nel lignaggio Drikung Kagyu).
Analizziamo per punti le caratteristiche fondanti delle due religioni.
1)La meta finale.
Per cristiano la meta finale , l’unione con Dio tramite Cristo, è da un punto di vista psicologico la trasformazione del cuore delle persone nella Bontà Assoluta. Le formule usate per indicare l’obiettivo sono differenti, di sicuro per il cristiano ha importanza immensa la fede nella natura divina di Cristo, ma il duplice comandamento in cui Gesù ritenne di condensare tutte le leggi, ovvero di amare Dio con tutto il cuore e il prossimo come se stessi (Mc 12, 29-31) non è altro che questo riferimento alla Bontà Assoluta. Dal momento che Dio è mente di Amore infinito, ne risulta che il comandamento principale del cristianesimo è l’Amore Incondizionato. 
Nel Buddhismo, l’Amore Incondizionato o Incommensurabile (cioè infinito e rivolto a tutti gli esseri senzienti con imparzialità) è uno dei quattro Pensieri Incommensurabili, il cui beneficio è inconcepibile, immenso, sia per il proprio benessere che (ovviamente) per il benessere del mondo. Garchen Rinpoche afferma che ciò che chiamiamo Dharma (la legge spirituale nelle religioni orientali) è Amore. 
L’amore privo di parzialità, secondo questo stimato maestro, è la causa di ogni felicità, sia terrena che spirituale. Possiamo dire dunque che il fondamento tanto  del buddhismo quanto del cristianesimo è l’amore incondizionato. Spesso per non confondere questo amore con l’amore parziale o con l’amore romantico noi buddhisti usiamo il termine tecnico di “Bodhicitta”, la mente altruistica volta all’ illuminazione. La felicità suprema scaturisce dunque dallo sviluppare l’amore in massimo grado finché la mente, sempre più libera dai vincoli dell’attaccamento al sè, non diventi “non-duale” come quella di Buddha, che non distingue più fra sè e gli altri, onnisciente e amorevole. 
Così pure il cristiano ricerca l’unione con la mente di Dio a volte rinunciando a se stesso per il bene degli altri, considerando allo stesso modo la propria e l’altrui felicità.
Quindi il nucleo di base delle due religioni è quasi identico (con l’ unica differenza che, per il buddhista, l’amore si estende anche agli animali e in generale a tutti gli esseri, corporei o incorporei). Del resto estensione dell’ amore alle altre specie viventi non è estranea neppure ai cristiani, altrimenti perché Francesco d’Assisi avrebbe predicato anche agli uccelli? (A proposito del poverello d’Assisi sicuramente  agli studiosi cristiani può interessare sapere che anche in Tibet, nel Medioevo, è sorto un grande mistico, che come Francesco viveva in estrema povertà e come lui componeva straordinari canti ispirati dalle sue realizzazioni meditative: Milarepa; il lignaggio di cui oggi espongo alcune istanze discende proprio da lui).
2) La Vacuità.
La Vacuità è il tema buddhista che più ha suscitato perplessità ed errori interpretativi in Occidente. È vero che il Buddhismo cerca solo il Vuoto? Questo Vuoto non è un nichilismo incompatibile con la valorizzazione cristiana del creato?
No, Sunyata (la Vacuità) non è affatto un semplice “vuoto”. È piuttosto un’ estensione della considerazione (avvalorata anche dalla fisica moderna) che nulla esiste se non in relazione a tutto il resto. Nulla esiste di per sé, isolato dal contesto. A livello meditativo questa realtà assume il sapore di un’esperienza forte di distacco e beatitudine che permette al buddhista di raggiungere la cosiddetta “illuminazione”. Ma questa illuminazione si dice che sia come un uccello che vola con due ali: la Vacuità da una parte e la Compassione (Amore) dall’altra.Troppo strano ed esotico per un cristiano? Non credo: se ricordiamo che Dio consigliò a Teresa d’Avila di considerare tutto falso eccetto Lui stesso (ho questo ricordo dalle mie letture ma non riesco purtroppo a trovarne la citazione esatta), si può affermare che in fondo è come se le avesse consigliato di percepire come Vacuità tutto ciò che non sia Dio stesso. Quindi una certa forma di Vacuità può essere utile anche ai cristiani, le cui ali sarebbero Dio (=Amore) e la Vacuità (distacco dal mondo, ma non indifferenza ).
Quanto al distacco dal mondo, esistono sia nel cristianesimo che nel buddhismo approcci differenti. Da un lato alcuni cristiani medievali e i buddhisti della “via dei sutra” miravano principalmente all’emancipazione dal mondo, dall’altro i cristiani moderni insistono anche per l’apprezzamento del creato, mentre nel buddhismo vajrayana (quello più esoterico e connesso con le pratiche delle Divinità) si parla di “visione pura”, in cui ogni fenomeno viene visto come manifestazione del divino, quindi ogni elemento di questo mondo (samsara) non viene visto come scisso dal nirvana (mente divina di Buddha) ma come sua emanazione o come sua più intima e profonda essenza.
Secondo Garchen non vi è nessuna delle grandi religioni che non sia in qualche modo connessa ad Amore e Vacuità (Vajrakilaya teachings, 2019)
3) Trascendenza.
È vero che, mentre il Cristianesimo crede in esseri trascendenti ed eterni, (la Trinità creatrice, la Madonna, gli angeli e i santi), il Buddhismo è invece ateo e vuole solo liberare la mente dal dolore?
No, non è corretto, benché in molti sutra la principale preoccupazione di Buddha sia proprio quella di emancipare dalla sofferenza senza alcuna pretesa fideistica. 
Il Buddhismo è stato definito religione “ateistica”, ma non perché rifiuti la possibilità che esistano Dei (ricordiamo tra l’altro che fu Brahma stesso, il Dio Creatore dell’Induismo, a convincere il Buddha a diffondere il suo messaggio!), ma solo perché non crede per semplice dogma indiscutibile in un unico Dio creatore di tutto, o, per essere ancora più precisi, non ritene indispensabile credervi per avere l’Illuminazione, quest’ultima configurandosi non come adesione cieca a una fede né come egoistico isolamento anestetico da tutto ma come saggezza trascendente, che è libera dal dolore ma che vuole in primo luogo liberare tutti dal dolore.
 Buddha in molti sutra non poneva come prerequisito la fede per poter liberare la mente, ma questo non significa che non vi siano esseri trascendenti, che aiutano i praticanti nel loro cammino, né tantomeno significa che la fede non possa sorgere in modo profondo in un buddhista. Le Divinità Vajrayana sono esseri infiniti, onniscienti, infinitamente compassionevoli. A differenza del Cristianesimo una persona può approcciarsi alla meditazione e alla filosofia buddhista anche qualora rifiutasse l’ esistenza di una trascendenza, ma appunto ciò non implica una filosofia materialista. Basta leggere questo brano di Padmasambhava per rendersi conto del fatto che, pur non definendolo spesso come “creatore”, in realtà i meditanti a volte descrivono questo Essere o questa Mente (di cui le varie Divinità non sono altro che emanazioni sorte per il bene di tutti) come ciò da cui tutto emana:
“Io sono la coscienza illuminata, il lume dei maestri; io sono la matrice dei Buddha dei tre tempi; io sono il padre e la madre degli esseri dei tre mondi; io sono anche la causa di tutta la realtà, l'ambiente e coloro che ci vivono. Non c'è nulla che non scaturisca da me”. 
“Io sono la coscienza illuminata, il sovrano creatore di tutto”
[La liberazione naturale tramite la nuda visione, Padmasambhava; in  “Consapevolezza”a cura di Giuseppe
 Baroetto]
4) La non resistenza al male
Il precetto di Gesù di porgere l’altra guancia in caso di percossa, che anticipò di molti secoli la resistenza non violenta di Gandhi, trova notevoli affinità con un bellissimo paragone usato da Buddha (“se briganti e assassini con una sega da alberi vi staccassero articolazioni e membra, chi per questo provasse furore non adempirebbe il mio insegnamento. Quindi voi monaci dovete ben esercitarvi a non essere turbati, a non lasciar sfuggire dalla bocca nessuna cattiva parola, a rimanere amichevoli e compassionevoli, con animo amorevole, senza segreta malizia. E dovete esercitarvi a irradiare chi vi sta davanti, con animo amorevole, e poi, cominciando da quella, a irradiare il mondo intero con animo amorevole, con animo ampio, profondo, illimitato, privo di rabbia e rancore”, .Kakacûpama Sutta, in canonepali.net).
Allo stesso modo si legge nelle 37 Pratiche del Bodhisattva: “Anche se qualcuno ti taglia la testa senza che tu abbia fatto nulla di male, prendi su di te tutte le sue azioni negative attraverso il potere della compassione”
Questo non implica che non si possa praticare una legittima autodifesa, ma che l’atteggiamento mentale e il movente non deve mai discostarsi dall’Amore
4) Politeismo e Trinità.
Dunque il Buddhismo è un politeismo?
Anche in questo caso, non propriamente: le divinità come accennato non sono divinità mondane mosse da svariati desideri e passioni come nell’ antica Grecia, ma convergono tutte in un’ unica Mente di amore. Ciò ricorda in fondo la Trinità Cristiana dove vi sono più “persone” in un unico Dio. Si può dire dunque che il buddhismo non sia più politeista del cristianesimo, dal momento che non vi è reale separazione fra le Divinità: diversi Dei, in un’unica Mente Assoluta (di volta in volta chiamata Vajradhara, Samanthabadra, Buddha Primordiale…). Garchen afferma che tutte le divinità sono in realtà una sola. 
Ciò che distingue una divinità “mondana” da una divinità da venerare è la percezione della mente della Divinità come Amore Assoluto: se è essenziata di Amore Incondizionato allora è una Divinità da venerare, a prescindere dalla forma in cui si manifesti.
Non credo qui vi siano difficoltà per il cristiano: che importa se la Trinità sceglie di manifestarsi con forme colori e nomi diversi per colpire il cuore di diverse persone in diverse situazioni culturali e mentali? Ciò metterà davvero in crisi il suo monoteismo? 
5)Peccati e veleni:
 nel buddhismo si parla più spesso di veleni mentali che di peccati ma a volte si usa anche la parola “peccati”: il concetto è simile. Essi impediscono alla mente di riconoscere la sua vera natura, che è pura, incontaminata, chiara, compassionevole; il veleno principale è l’attaccamento al sè. I peccati del Cristianesimo d’altro canto spesso sono comunque riconducibili a mancanze di amore per gli altri, e all’ eccessiva inflazione della propria importanza, quindi la visione è ancora una volta compatibile.
6)Metafisica.
La divergenza maggiore fra le due religioni consiste nella dottrina della rinascita, ma il comportamento etico rimane identico. Il cristiano mira al Paradiso, ovvero all’unione con il Dio d’Amore assoluto, il buddhista mira al Dharmakaya, ovvero all’unione con la mente onnisciente e amorevole di Buddha o meglio al disvelamento di tale mente dentro di sè: il fatto che siano possibili più reincarnazioni non cambia la direzione del comportamento, in quanto in entrambe le dottrine solo un comportamento etico e amorevole può portare al paradiso o -nel caso buddhista- a rinascite fortunate e, ancora meglio, all’uscita dal ciclo delle rinascite fondendosi con la mente assoluta del Dharmakaya. Del resto i paradisi esistono anche nel buddhismo, ma non ne sono la meta finale bensì una tappa transitoria verso l’Illuminazione. Una piccola curiosità sta negli inferni buddhisti: anch’essi sono sempre impermanenti, e vanno visti come luoghi di dolore ma anche di purificazione più che di dannazione eterna (concetto quest’ultimo che, se non vado errato, è rifiutato anche da alcuni teologi cristiani). 
In un’analisi più sottile, in realtà la trasformazione della mente ottenuta con la meditazione permette di percepire già come Nirvana il samsara stesso, cioè di percepire come paradiso supremo il mondo fenomenico ordinario (non diceva forse Gesù: “Il regno di Dio è in mezzo a voi”?)
7)Il rapporto col dolore.  Il dolore per un cristiano è un mistero che conduce, se vissuto in modo spirituale, a una maggior vicinanza a Dio e a una maggior apertura agli altri. Dio, secondo lo scrittore Alessandro Manzoni, “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per prepararne loro una più certa e più grande”. In sostanza il dolore provoca una crescita e una purificazione. 
La religione buddhista vuole liberare tutti gli esseri dalla sofferenza e consegnare la perfetta felicità a tutti. Può sembrare quindi paradossale che la sofferenza anche in questa religione possa avere un ruolo positivo. Nel buddhismo il dolore (che non è mai causato dalla volontà di Buddha ma solo dalle proprie azioni negative , le quali tramite la legge karmica conducono a conseguenze dolorose) ha una valenza purificatoria e se si riesce a vederlo in tale ottica si riduce la sua forza. Le cause del dolore vanno rintracciate nelle colpe delle vite precedenti e in ultima analisi nell’attaccamento al sè, che genera i tre veleni che devastano il mondo: avversione, attaccamento e ignoranza. Il dolore dunque purifica il proprio Karma e dovrebbe essere vissuto con questa gioiosa consapevolezza. Liberandosi poi dall’ attaccamento al proprio Io “isolato”, il dolore scompare: nella Vacuità non esiste dolore e perfino gli inferni sono percepiti da un Illuminato come paradisi.
8)Preghiera e meditazione 
Contrariamente al pensiero comune, i cristiani hanno una tradizione meditativa ricca, per esempio nel cristianesimo ortodosso, con l’esicasmo, ma non solo: i mistici come Teresa d’Avila hanno avuto rapimenti che a mio avviso sono paragonabili ad alcuni stadi della meditazione buddhista (in particolare lo stadio di generazione e la grande beatitudine). Quindi vi può essere un fecondo cammino condiviso. Nella Chiesa vi sono esperti di meditazione, come per esempio padre Bormolini, che non hanno avuto timore di ricevere anche qualche insegnamento dall’Oriente. La ricchezza filosofica dell’analisi mentale buddhista non può che essere di aiuto a chiunque voglia pregare con sincerità e concentrazione la propria Divinità, di qualunque religione si tratti. Inoltre la meditazione buddhista può aiutare a risolvere problemi emotivi quotidiani, anche non strettamente connessi con la fede o con problemi morali elevati, migliorando la qualità di vita.
Un’ulteriore assonanza meditativa riguarda l’esicasmo, un tipo di meditazione cristiana che prevede tra le altre cose la concentrazione sull’ombelico, proprio come il gTummo tibetano, la meditazione per generare beatitudine e calore che fa perno sul chakra a livello ombelicale (un punto di concentrazione che peraltro è importante anche nelle antecedenti pratiche induiste, per esempio la pratica tantrica di Kundalini). Di altri chakra (punti di focalizzazione concentrativa ) invece non mi risulta vi sia menzione nel cristianesimo, che sicuramente potrebbe trovare arricchimento dalla loro conoscenza. La recita dei mantra, importantissima nel buddhismo tibetano, può infine trovare affinità nella recita del rosario: la ripetizione continua di una pregnante formula spirituale (presente nell’esicasmo stesso) contribuisce a produrre svariati effetti positivi sulla mente. 
9) Tara e Maria
Tornando al rosario, esistono innegabili similitudini tra queste due meravigliose figure materne: Tara la madre di tutti i Buddha, e Maria la madre di Gesù. Entrambe venerate con grande fede, raffigurazioni di immensa compassione, si presentano con forme e colori diversi (Tara ha 21 forme, Maria si presenta anche come Madonna Nera). Personalmente credo (in base a piccole scoperte personali e a opinioni di esperti) che non solo siano simili, ma che siano la stessa Divinità. Naturalmente per il cristiano Maria non è una Dea ma una creatura santa, pertanto un cristiano non potrà condividere appieno questa mia posizione. Dovrà però ammettere che una creatura che viene definita addirittura “Madre di Dio” non può essere una creatura come le altre. I tibetani invocano Tara in ogni circostanza difficile, mentre alcuni luoghi dedicati a Maria sono noti per le guarigioni miracolose. Così infatti viene definita in una poesia composta da  Khandro Namsal Dorje: “priva di sforzo, tu sei la chiarezza senza sforzo delle quattro gioie. Tara, meravigliosa, non c’è dubbio che tu conceda sollievo agli stanchi. Tara, bellissima, sei perfetta in te stessa e pervadi tutto.”
10) Il sacrificio di Gesù e quello di Buddha.
Gesù, che dona la sua carne e il suo sangue per il bene del mondo, è esempio di quella dedizione totale al bene degli altri incarnata dai Bodhisattva, i santi del buddhismo Mahayana. Pochi sanno che anche Buddha decise (in una vita precedente raccontata nella “Ghirlanda delle nascite”) di donare la sua carne e il suo sangue a dei demoni che la chiedevano come cibo. Inoltre, in un’altra vita, mosso da compassione per dei tigrotti neonati che stavano per essere divorati dalla loro madre affamata, donò in pasto se stesso alla tigre.
Anche la pratica del Tonglen, che, per semplificare, consiste nel prendere in meditazione su di sè la sofferenza degli altri e donare loro la propria gioia, potrebbe essere definita perfettamente “cristica”. 
10) La fede.
La bellezza di sentire che la Divinità ha a cuore la tua vita con più intensità di quanto una madre faccia col proprio figlio unifica i credenti di tutte le religioni in un sentimento indicibile: il sentimento di essere amati da Colei (o Colui) che è Amore, unico centro dell’universo e dell’esistenza. Al di là delle separazioni dogmatiche, questa è la fede. E anche gli atei morali, che pur negando la trascendenza credono in una fratellanza senza compromessi, hanno posto al centro del loro cuore proprio la stessa cosa. 
11) cosa può insegnare un cristiano a un buddhista?
Il perno dell’insegnamento di Gesù sulla carità, con la sua inesauribile efficacia, può contribuire a distogliere lo sguardo del buddhista dalla via del ricercatore solitario, che vuole solo liberare la propria mente: in sostanza Gesù può aiutare il buddhista a vedere la maggior completezza dell’ approccio buddhista  Mahayana (quello più fondato sull’altruismo) rispetto all’Hinayana.
12) cosa può insegnare un buddhista a un cristiano?
Numerosi modi di esprimere la propria fede in meditazione: per esempio alcune fra le pratiche di visualizzazione presenti nello stadio di Generazione possono essere estese alla meditazione cristiana: basterà visualizzare Gesù o la Madonna al posto delle divinità buddhiste (come una volta accennò Sua Santità il Dalai Lama durante una pratica liturgica buddhista). Inoltre il buddhismo può insegnare come mettere in pratica, attraverso percorsi meditativi precisi ed efficaci, forse psicologicamente più dettagliati delle meditazioni cristiane, la massima di Gesù di amare il proprio nemico.
Con questo concludo questa piccola raccolta di suggestioni, augurandomi che aiuti a liberare da eventuali incomprensioni gli esponenti di queste due meravigliose dottrine.
Finché ci saranno molti credenti convinti che la propria Divinità (ovvero il proprio modo di vedere l’Assoluto) sia superiore a quella altrui, il dialogo fra religioni sarà velato da una sottile ipocrisia e non sradicherà veramente il senso di superiorità e il razzismo.

Per questo mi sento di fare una affermazione forte: chi vuole la pace deve essere almeno un po’ sincretista.





*Non essendo io un maestro realizzato, la mia esposizione è soggetta a errori interpretativi, di cui mi assumo interamente la colpa



Davide Corvi 10/10/ 25


lunedì 26 settembre 2022

La possibile esistenza delle Divinità

“Per via della risoluzione che lo caratterizza, un tale intelletto è orientato verso una sola (eka) direzione, mentre quello di chi ha un’indole instabile si perde in un’infinità di rivoli” Bhagavad Gita , trad. Scarabelli, Vinti


“… è nel proprio centro che l’anima finirà per scoprire, dopo acuta purificazione, la presenza di Dio». Edith Stein, Scientia Crucis


“Il fattore psicologico, che agisce con maggior potenza sull’uomo, funge da “dio” poiché è sempre il fattore psichico più potente che viene chiamato dio.” Carl Gustav Jung


“That deity arises from bodhicitta, which comes from the buddhas.”

Garchen Rinpoche, Vajrakilaya


Proseguo i miei appunti sull’analisi mentale eugnostica (eugnosticismo è un neologismo di cui ho già accennato in precedenti articoli: si tratta in sostanza dell’applicazione della conoscenza razionale ai fenomeni interiori di cui si ha coscienza, conoscenza che non deve avere bias scettici né bias fideistici).

Ho già illustrato la mia suddivisione dei singoli istanti di coscienza in atomi mentali, riconoscendone (a differenza delle suddivisioni tradizionali in skanda) solo quattro (ricordando però che i primi tre comprendono anche i rispettivi phantasmata: per comprendere vedi articoli precedenti):

Vista

Udito

Sensazioni corporee

Pensieri

Soffermandoci sui pensieri, di cui ho formulato una definizione che procede per negazioni successive (“ogni fenomeno che appaia alla coscienza e non sia visivo, né uditivo, non sia sensazione corporea, e non sia neppure fantasma visivo, uditivo o corporeo, viene definito pensiero”, definizione che attinge al concetto aristotelico di “fantasma”), vorrei ora analizzare un sottogruppo di pensieri molto importante: i pensieri volitivi. Essi sono il vero movente di tutta la nostra vita, dal momento che, escludendo i fenomeni riflessi e automatici, ogni nostro movimento muscolare, compresi quelli dei muscoli laringei, e larga parte dei pensieri cognitivi, dipende da essi.

I pensieri volitivi sono dunque il motivo delle nostre azioni volontarie, e a livello lessicale (ricordando che però non sempre i pensieri sono espressi con parole: essi sono più rapidi e più profondi della loro vocalizzazione) si possono definire come frasi che iniziano con verbi come: “Devo fare / è necessario fare” e affini.

Ciascun pensiero volitivo dipende da pensieri volitivi di ordine gerarchico superiore, che si possono rintracciare con una catena di domande causali (“devo fare x” Perché? “Perché y” Perché y? “Perché z” e così via) fino ad arrivare a dei postulati, ovvero a delle volizioni che ci appaiono non più discutibili o spiegabili, talmente evidenti per noi da non essere più ulteriormente analizzabili, oppure talmente a fondo analizzate in passato da essere assurte al ruolo di postulato per evitare continue rimuginazioni. Ho chiamato queste volizioni-postulato “centri volitivi”.

È ipotesi di questo scritto che i centri volitivi del singolo soggetto possano essere anche più di uno ma che sia opportuno per la salute mentale che siano ordinati gerarchicamente e che ve ne sia uno solo superiore a tutti gli altri, in modo che, in caso di decisioni che fanno confliggere due centri si sappia sempre quale centro scegliere. Per usare una metafora, nel pantheon possono esserci più dei, ma una sola deve essere la divinità suprema a cui tutte le altre devono ubbidire. È facile nella vita quotidiana assistere a conflittualità di questi centri. Se il centro “amore per la famiglia” confligge con il centro “sete di successo” si verificheranno quei casi di padri combattuti fra carriera e famiglia, che rischiano di far male l’una e l’altra cosa…

C’è chi sostiene che l’incoerenza sia inevitabile per gli esseri umani, ma io credo che (sebbene  forse la coerenza assoluta sia solo un asintoto verso cui tendere) quanto maggiore è la coerenza con un obiettivo “nobile” tanto maggiore sarà la soddisfazione esistenziale dell’individuo; viceversa l’incoerenza renderà più lontani tutti gli obiettivi dell’individuo a causa di dispendio energetico e conflitti (e invece la coerenza con un obiettivo inadeguato ovviamente impoverirà l’esistenza).

Se un centro volitivo ha molta importanza e non viene soddisfatto, nascerà inevitabilmente del dolore esistenziale. Per cui si verifica in un certo senso il divieto evangelico di servire due padroni. 

La piena consapevolezza del proprio centro volitivo semplifica l’esistenza, ma naturalmente non tutti i centri volitivi sono ugualmente efficaci nel conferire significato profondo alla vita.

Il caso estremo (patologico, talmente anomalo da non verificarsi quasi mai) del soggetto che assume come unico centro la ricerca di sensazioni corporee positive mostra un singolare paradosso: poiché la vita umana necessita continuamente dell’aiuto e della collaborazione con altri esseri, il suddetto egoista si troverà a un bivio: o rinunciare alle sensazioni positive procurate da una buona interazione con gli altri (che non può più di tanto simulare, e anche simulata non rende altrettanto) o allontanarsi dal suo centro almeno temporaneamente, con una scissione mentale (“schizofrenia” spirituale) dolorosa. Per converso l’altruista disposto a rinunciare a sensazioni positive per aiutare il prossimo potrebbe a volte ricevere sensazioni positive che non aveva cercato, suggerendo un piccolo richiamo alla massima evangelica secondo cui prima bisognerebbe cercare il “regno di Dio” e tutto il resto sarà dato in aggiunta.

Si verificano insomma curiosi paradossi in ambito spirituale.

La mia personale sensazione è che di questa “schizofrenia” spirituale soffriamo più spesso di quanto ci rendiamo conto, e che riusciamo ad attutirla solo grazie al nostro effimero benessere.

La ragione guida a capire che è necessario un centro, e l’esperienza, insieme alla ragione stessa, può guidare alla scelta del centro.

Se il centro volitivo è lo spirito di fratellanza fra esseri, Mahakaruna, possiamo avere alcune “garanzie esistenziali”: infatti tale caratteristica, oltre ad essere un fattore cruciale in religioni non teistiche come il buddhismo, è anche un attributo di Dio in molte religioni teistiche, inoltre nelle relazioni interpersonali la predisposizione allo spirito di fratellanza agevola di molto i rapporti e rende più sincere le manifestazioni di affetto.

Avere uno spirito di servizio agli altri rende meno gravoso il lavoro e aumenta la predisposizione all’ironia.

Un aspetto più profondo da comprendere riguarda il fatto che un centro volitivo modifica anche il mondo cognitivo: ciò che si conosce del mondo e la filosofia attraverso cui lo si interpreta dipende, per vie non sempre immediatamente riconoscibili, dai nostri centri volitivi, e non solo nel senso deteriore di una cecità che impedisce di vedere ciò che contrasterebbe con i nostri desideri ma anche in un senso a volte spiritualmente positivo: la filosofia di vita è “generata” dal centro volitivo in modo inaspettato. Occorre un esempio: tra una filosofia pessimista che vede il mondo come concatenarsi causale privo di senso trascendente in cui la felicità umana è una chimera e una opposta filosofia che riconosce un senso e che ritiene che il gioco/battaglia dell’essere umano non sia solo il dimenarsi di una marionetta ma possa anche essere una progressione spirituale verso livelli sempre più alti di realizzazione e di Bodhicitta, e che la gioia anche del più piccolo degli esseri sia un tesoro che in qualche modo misterioso e vasto sfugge alle leggi dell’impermanenza, l’uomo che ha scelto un centro volitivo di fratellanza sceglierà la seconda filosofia. Dato che la prima filosofia porta a dolore esistenziale e a comportamenti inadeguati essa è per lui falsa. Ecco quindi che un centro volitivo nobile come Bodhicitta illumina il suo “devoto”, verificandosi una sorta di “credo ut intelligam”, e il centro volitivo porta a nuovi criteri di verità/falsità.

Meglio precisare ulteriormente.

Ciò che indica se un fenomeno sia vero o falso è il sistema di postulati di riferimento. Un fenomeno testimoniato dai sensi non è di per se stesso vero o falso a meno che la filosofia di fondo non ne accerti con chiara cognizione la natura. Insomma  i postulati filosofici determinano il criterio di verità, ma tali postulati dipendono esclusivamente dal centro volitivo. Se il centro volitivo è una Divinità di Compassione, anche i fenomeni più duri dell’esistenza, avendo caratteristiche impermanenti, verranno ritenuti solo apparenze mondane, qualcosa destinato a finire, e mai intralci lungo il cammino o fenomeni che pongono dubbi alla fede. Viceversa i traguardi spirituali, i legami affettivi nobili e i frutti dello spirito di fratellanza verranno ritenuti come intrinsecamente eterni, in quanto discendenti dal centro volitivo, di cui non si può mai percepire la fine dipendendo dall’adesione volontaria del soggetto.  In effetti tali frutti persistono anche dopo la morte dell’individuo. Invece di ogni dolore non si può negare che prima o poi scompaia: a che scopo fondare una filosofia sul dolore? Fondare il proprio centro sulla gioia invece mette già in una buona disposizione d’animo.

Se non ricordo male, perché non mi riesce più di trovare la citazione, Teresa d’Avila riferiva di aver ricevuto da Dio il consiglio di considerare falso tutto ciò che non discende da lui. Così chi ha posto Mahakaruna come centro dell’esistenza considererà falsi tutti i pensieri che non discendono da (e non generano a loro volta) Mahakaruna. E all’interno delle singole attività quotidiane in cui si declina il servizio al proprio “centro”, sarà considerato come vacuità tutto ciò che non è attinente a tale attività. Così il soggetto può allenarsi alla vacuità (intesa in senso buddhista) contemporaneamente all’esercizio della compassione: come ho scritto altrove, tutto ciò che non è amore è vacuità. L’amore si salva dall’impermanenza e la trascende, perché ogni istante dell’individuo sarà occupato dall’amore che dunque risulta esistenzialmente eterno (l’individuo non ne percepirà mai la fine, e inoltre consegnerà un testimone di fratellanza al futuro).

Il “vedere tutti fenomeni come sogno”, consigliato nel lo-jong e nello Dzogchen, riceve una cruciale modifica: considerare così tutti i fenomeni, tranne Uno.

Per concludere questa prima parte, ecco un aforisma : “Non c’è nessuno che sia davvero senza una divinità (=centro volitivo). A te la scelta di quale dio sia il migliore”.


[Una piccola raccomandazione: evitare il masochismo, essere equilibrati].


[Piccola dimostrazione dell’impossibilità di avere più centri volitivi equipotenti.

Se due centri volitivi non hanno mai conflitti, essi sono come un unico centro, perché la loro piena compatibilità permette di leggerli come comandamenti equipotenti, come uno scopo di vita che si declina in due componenti. Se hanno conflitti è opportuno predeterminare quale dei due prevalga, e quindi va da sé che quest’ultimo è gerarchicamente superiore.]

sabato 4 aprile 2020

GLI ATOMI ESPERIENZIALI: un contributo sulla Coscienza

 Il seguente articolo riassume, sintetizzando i precedenti interventi del blog, il mio punto di vista sulla Coscienza:

GLI ATOMI ESPERIENZIALI: UN CONTRIBUTO SULLA COSCIENZA 

Nella psichiatria moderna, che presenta schemi classificatori molto precisi di tutte le patologie, si rileva una mancanza di precisione scientifica nelle definizioni degli elementi fondamentali del vissuto mentale, le emozioni, i pensieri, le sensazioni, i cinque sensi e via dicendo. Si lascia di solito l’arduo compito di definire questi elementi alla filosofia, una disciplina che è però ben lontana dal raggiungere un’ univocità su queste nomenclature.
Grazie all’integrazione fra la mia esperienza di medico ed miei studi di filosofia della mente buddhista ho elaborato, e qui propongo, alcune proposte classificative utili sia alla clinica che al ragionamento filosofico.
Dal punto di vista della biologia, ciò che conosciamo del mondo esterno (una volta accettata, con realismo filosofico, l’esistenza di questo “mondo esterno”) e ciò che percepiamo del nostro corpo ci è veicolato dai nervi, cioè da una sorta di "cavi elettrici" di natura organica, cellule altamente specializzate, che mettono in contatto le zone che ricevono gli stimoli (i recettori) con il cervello, anch’esso composto da cellule nervose, il quale li percepisce e li rielabora
Obiettivo di questo articolo è la classificazione dei fenomeni soggettivi che emergono da tale rete neurale, impostandone una definizione razionale che può semplificare il linguaggio delle disquisizioni psicologiche, cliniche o filosofiche.
 Da un punto di vista soggettivo, introspettivo, i costituenti fondamentali della nostra esperienza (che vorrei chiamare atomi esperienziali o atomi mentali) sono ascrivibili a otto tipi di fenomeni:
-vista, udito, gusto, olfatto 
-sensazioni corporee (il quinto “senso”, che a mio avviso non deve comprendere solo il “tatto”)
-ricordi sensoriali
-immaginazioni sensoriali
-pensieri
Il motivo per cui è stato scelto il termine “atomi” è dovuto al fatto che nessuno di questi elementi può essere scomposto in elementi più semplici: la vista non può essere scomposta nella somma di elementi non visivi, l’udito non può essere scomposto in fenomeni non uditivi etc (contrariamente alle emozioni, per esempio, che sono la somma di pensieri e sensazioni).
Prima di passare alla lettura filosofica di questi fenomeni,  facciamo un utile ripasso dell’anatomia soggiacente; vediamo cioè a cosa corrispondono nella struttura del nostro corpo queste esperienze.
I primi quattro sensi, detti anche sensibilità specifica, devono la loro esistenza, oltre che agli organi di senso (occhi,  orecchie,  papille gustative, strutture nervose dell’olfatto) a vie nervose molto particolari: si tratta dei nervi encefalici o nervi cranici, ovvero nervi che dalla periferia del nostro corpo accedono direttamente al cervello (mentre gli altri nervi passano prima dal midollo spinale e si chiamano quindi nervi spinali). 
Il primo paio di nervi cranici  veicola al cervello i messaggi dell’olfatto, il secondo paio quelli della vista, il settimo, il nono e il decimo paio quelli del gusto, l’ottavo quelli dell’udito e la sensibilità vestibolare (cioè l’equilibrio).
Non ci addentriamo nello studio delle zone cerebrali deputate a ricevere queste informazioni.
Le sensazioni corporee appartengono a quella che in Anatomia Umana viene definita "sensibilità generale", per distinguerla dalla "sensibilità specifica",  propria dei primi quattro sensi appena citati.
La sensibilità generale comprende a sua volta:
-la sensibilità somatica, che riguarda la parte più “periferica” del nostro corpo: pelle, muscoli, tendini, ossa (questa sensibilità, se vogliamo andare per il sottile, è a sua volta distinta in esterocettiva- stimoli tattili sia termici che dolorifici- e propriocettiva- proveniente da muscoli, tendini e articolazioni).
-la sensibilità viscerale, cioè proveniente dai visceri (esistono recettori capaci di percepire variazioni chimiche, variazioni pressorie, variazioni di concentrazione nei nostri visceri e nei nostri vasi sanguigni). Le informazioni provenienti dai visceri (di cui solo una piccola parte diviene cosciente) sono condotte al cervello da un’altra ricca famiglia di nervi: i nervi del sistema simpatico e parasimpatico.
Le vie nervose della sensibilità generale comprendono quindi i nervi spinali (che afferiscono al midollo spinale) e alcuni dei nervi encefalici.
Le sensazioni corporee, come vedremo (soprattutto- ma non solo- quelle di natura viscerale), compongono insieme ai pensieri la colonna portante di quei fenomeni che chiamiamo "emozioni”.
Analizziamo quindi in una prospettiva interiorista (da ora in avanti chiameremo “interiorismo” il nostro sforzo classificatorio basato esclusivamente sull’introspezione) le sensazioni corporee.

LE SENSAZIONI CORPOREE
Cosa sono le sensazioni corporee (termine più chiaro rispetto all’equivalente termine medico “sensibilità generale”)? 
Si tratta di zone spazialmente definibili in rapporto al nostro corpo (zone che hanno quindi una connotazione anatomica) di cui si avverte la stimolazione. 
Usando una terminologia letteraria questa stimolazione ha le caratteristiche di un “flusso di energia”, di una “pulsazione”, di un “vento interiore” (terminologia usata dai meditanti tibetani); ma per voler mantenere chiarezza e intelligibilità dovremo essere meno fantasiosi e limitarci a parlare di una zona o di un insieme di luoghi anatomicamente definiti (almeno in modo sommario) che vengano percepiti senza l’ausilio degli altri quattro sensi.
Facciamo alcuni esempi.
Tocco il tavolo con una mano: avverto una stimolazione a livello delle parti della mano che sono appoggiate. Difficile descrivere in modo particolarmente preciso questa stimolazione: avvertirò la temperatura più o meno fredda del tavolo, il suo carattere più o meno liscio, ma in ogni caso se volessi privare della componente cognitiva questa sensazione, se cioè non avessi mai imparato i concetti di caldo, freddo, liscio o ruvido, se non sapessi cos’è un tavolo, ma sapessi solo descrivere geograficamente i luoghi del mio corpo, dovrei dire solo che avverto una stimolazione di molti punti anatomicamente posti in quella sede.
Altro esempio:un attacco di cefalea. Se ci isoliamo dal concetto di dolore e dall’emozione connessa, potrò descrivere a un osservatore esterno alcuni punti del mio cranio che sono stimolati, in modo più o meno pulsante: anche in questo caso se escludiamo alcuni connotati emotivi o cognitivi (“insopportabile, doloroso, gravoso”) che però- e questo punto lo analizzeremo meglio in seguito- non sono parte integrante del fenomeno descritto, posso dire poco di più. Tolta la parte cognitiva e volitiva, resta una zona anatomica stimolata in più punti in un modo che si può descrivere solo per analogie e senza una grande precisione.
Concludendo, il connotato fondamentale delle sensazioni corporee, ciò che le distingue in modo netto dalle altre sensazioni (visive, uditive, etc…) è il fatto che sono anatomicamente localizzabili, sono cioè in diretta relazione con il nostro schema corporeo mentale, e lo sono senza l’ausilio degli altri sensi.

I PENSIERI 
Siamo abituati a molteplici usi di questa parola, per cui può essere che la mia proposta terminologica appaia riduttiva. Non dobbiamo però dimenticare che qui stiamo parlando delle componenti più semplici ed elementari delle costruzioni della mente umana, stiamo parlando delle “lettere”, e non bisogna confondere le lettere con le parole. 
I pensieri semplici, sotto definiti, disponendosi in milioni di combinazioni diverse, danno luogo a conversazioni, creazioni letterarie e scientifiche, conversazioni eccetera. La definizione non riguarda queste creazioni della mente umana, ma i singoli pensieri da cui ogni creazione o conversazione o idea umana è composta.

Per introdurre la proposta elaborata in questa sede riportiamo la definizione di John Haldane (11): C’è accordo tra il realista e lanti-realista che i pensieri siano enti cognitivi con particolari contenuti intenzionali. In questa scelta la parola intenzionale” non va letta con laccezione colloquiale di intenzione ma piuttosto con il suo profondo significato filosofico, analizzato già (12) da antichi pensatori come Avicenna, Averroè e Tommaso dAquino, per il quale si rimanda ai testi del settore.

Un pensiero è qualunque fenomeno interiore appaia al di fuori dei sensi e della loro immediata traccia mnestica. 
La definizione è valida anche ammettendo la verità che qualunque pensiero sia reso possibile dalla memoria stessa. Infatti se è vero che, con gli empiristi,  dobbiamo convenire che anche il pensiero più astratto non è che un ricordo di precedenti pensieri meno astratti e che questi ultimi sono il ricordo di esperienze sensoriali precedenti, tale ricordo è a volte così remoto, e il pensiero così rapido, da manifestarsi soggettivamente come fenomeno mentale diverso dalle tracce mnestiche. Tuttavia la mia opinione è che si tratti ancora di memoria, una memoria che è capace di generare nuovi significati  principalmente per la sua capacità di associare (come voleva Hume) eventi mentali che presentano le caratteristiche di somiglianza, di contiguità spazio-temporale, eccetera. Di questa capacità è necessario procedere a un’analisi dettagliata ma non nel breve spazio di questo articolo.
Il pensiero è quindi qualcosa che, pur nascendo dalle percezioni sensoriali, va oltre le percezioni, le immaginazioni e i ricordi, in quanto è una ulteriore rielaborazione e classificazione del contenuto mentale: figlio dei sensi, riesce però a trascenderli, fino ad essere in grado di studiarne le leggi.
E' importante capire che questo "messaggio non sensoriale” detto “ pensiero” non viene sempre percepito come insieme di parole, ma è in genere una percezione pressoché istantanea che solo in seguito e solo in alcuni casi viene "tradotta" in parole.
Il concetto è pregnante, quindi va sottolineato: i pensieri non sono sempre formulati con parole nella nostra mente. Questa è esperienza comune di chiunque abbia una certa capacità introspettiva. Potremmo dire che, diversamente dall’incipit del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Verbo”) nella componente cognitiva della mente “In principio è il significato” mentre il “verbo”, scritto questa volta con la minuscola, viene successivamente, o in contemporanea.
Probabilmente quando esseri capaci di elaborare azioni complesse ma incapaci di parlare, come le scimmie, riescono a svolgere un compito piuttosto ingegnoso, hanno vissuto dei pensieri privi di parole, ma non potremo mai saperlo realmente perché la certezza potrebbe venire solo dalla comunicazione verbale di tale esperienza. (Non sperimentando il vissuto di una scimmia non potremo mai sapere se tali compiti vengono svolti come li svolgerebbe un automa oppure con una percezione simile alla nostra del proprio vissuto mentale, anche se io propendo per quest’ultima ipotesi).
Un sottogruppo particolare dei pensieri sono le volizioni, cioè quei pensieri che spingono all’azione: “Devo fare questo…”, “Ora agirò così…”, “Voglio questa cosa…”, etc…Possiamo anche chiamarle “pensieri motivanti”.

LE EMOZIONI 
L’emozione è l’insieme di una sensazione corporea e di un pensiero ad essa strettamente associato, in cui quest'ultimo di solito ha un contenuto che spinge a un certo comportamento, è cioè un pensiero motivante (“Devo assolutamente fare questo”, “E’ necessario che…”, “E’ intollerabile che”, “E’ ottima cosa fare così…”, “Devo fuggire da questa cosa…”, “Questo oggetto è desiderabile, devo averlo”, etc…) .
Quindi, schematicamente: 
emozione=sensazione corporea+volizione.
Per quanto detto il fenomeno emozione comprende solo due atomi esperienziali: quello cognitivo (i pensieri) e quello corporeo (somatico e viscerale). Gli altri sensi possono scatenare un’emozione, ma non sono parte integrante del fenomeno “emozione”.
Questa definizione è una novità che può portare molti frutti. 
Il primo frutto ha a che fare con la ricerca psicologica futura: se l’emozione è una sensazione corporea associata a un pensiero, e se la sensazione corporea ha sempre-per definizione- una sua anatomia, qual è l’anatomia delle emozioni?
Esistono delle conformazioni “geografiche” delle sensazioni che tipicamente si associano a un’emozione?
Sicuramente sì, anche se la ricerca non è ancora andata così lontano da tracciare una vera “mappa” delle emozioni. Un primo interessante tentativo è stato fatto in una ricerca apparsa su Proceedings of The National Academy of Science (3).
E’ esperienza di tutti coloro che si dedicano all’introspezione il fatto che le emozioni si localizzino nel nostro corpo. Pensiamo alla frase: “Ho provato una profonda gioia nel cuore”. Non è indice forse del fatto che alcune forme di gioia hanno una componente “toracica” spiccata? (Per la definizione di torace, di addome, e di altri termini anatomici qui usati vi rimando ai testi classici di anatomia).
Se gruppi di ricercatori adeguatamente addestrati all’auto-osservazione si dedicassero allo studio di questo fenomeno forse potremmo disporre di una mappa sia figurativa che descrittiva, in cui una certa forma di gioia venga descritta (per fare un esempio fantasioso) come “prevalentemente toracica anteriore, con una lieve componente cervicale anteriore e una lieve tardiva componente addominale”. Certe forme di paura o di preoccupazione potrebbero svelare una predominante componente cranica (“Ci ho pensato così tanto che mi scoppiava la testa!”), e via di questo passo. 
I ricercatori potrebbero cioè scoprire l’analogo occidentale di quello che nei testi orientali viene di volta in volta chiamato “Chakra”, “Vento interiore”, “Canale energetico”, eccetera. 
Inoltre queste osservazioni potrebbero contribuire a spiegare meglio le tanto citate “somatizzazioni” di problemi psicologici. Non mi stupirebbe scoprire, sempre lavorando di immaginazione, che l’eccesso di emozioni prevalentemente craniche porti qualcuno a soffrire di cefalea.
Il secondo frutto riguarda la possibilità, per chi si dedica a una corretta introspezione, di agire sulle emozioni problematiche e trasformarle. Avendo capito che l’emozione è composta da due parti si può cercare di agire sull’una e sull’altra in modo forse più consapevole ed efficace che non se si considerasse l’emozione un’entità non scomponibile, indefinita e oscura. Per esempio si può lavorare sul pensiero che si associa all’emozione, contrastandolo con un pensiero differente, e si può lavorare sulla sensazione, imparando ad accettarla, a non amplificarla, a lasciarla passare, etc… Ma sulle possibili applicazioni della psicologia interiorista è opportuno diffondersi in un’altra sede.

RICORDI SENSORIALI E IMMAGINAZIONI SENSORIALI
La definizione di ricordo sensoriale data dalla psicologia interiorista è sovrapponibile a quella del linguaggio comune, ed è con ogni probabilità quello che Aristotele e Tommaso d’Aquino chiamavano “Phantasmata”:
si definisce ricordo sensoriale un'esperienza simile alla percezione sensoriale, ma con le seguenti caratteristiche:
1) è associata alla convinzione che sia avvenuta in passato ed
2) è in genere meno vivida della percezione stessa.

Invece l'immaginazione sensoriale è un'esperienza che, come il ricordo sensoriale, è simile alla percezione sensoriale e, sempre come il ricordo, è meno vivida della percezione stessa ma- a differenza di quest'ultimo- è associata alla convinzione che non sia avvenuta in passato ma che sia una creazione della nostra stessa mente. 
Se cerco di rappresentarmi mentalmente  una faccia con una scarpa al posto del naso, si formerà nella mia mente una certa immagine. La percezione di tale immagine viene detta "immaginazione sensoriale" (in questo caso riguardante un solo senso: la vista).
Su questo punto David Hume (2) si pronunciava diversamente, attribuendo alle immaginazioni sensoriali un carattere meno vivido dei ricordi. Io non credo che sia così. Alcuni meditanti buddhisti si allenano a costruire mentalmente delle immagini e da alcuni testi sembra che riescano a visualizzarle in modo molto nitido. Nikola Tesla  nella sua autobiografia(4), riferisce del carattere morbosamente vivido che avevano per lui alcune immaginazioni. Il dato è confermato da Oliver Sacks nel saggio <<Il fiume della coscienza>>, rivelando che in un libro autobiografico aveva  in buona fede riportato un episodio della sua infanzia, per scoprire solo in seguito di non aver mai assistito personalmente a tale evento. Quindi la strada da percorrere se vogliamo distinguere le immaginazioni dai ricordi è proprio quella di rilevare come i ricordi, essendo inseriti in una cornice vissuta e quindi in una trama di certezze, sono associati a una convinzione di verità. Ma intrinsecamente, a livello  fenomenologico, sono indistinguibili.
Non si è ancora parlato di un altro tipo di ricordo: il ricordo esperienziale: la nostra memoria di ciò che abbiamo detto e fatto, la nostra storia, eccetera, ma tale ricordo non richiede una classificazione a parte, in quanto i ricordi che non siano puramente sensoriali o raggruppamenti di ricordi sensoriali, non sono altro che un sottogruppo dei pensieri.


L’ATTENZIONE
Scrive Borges (5): <<Il  fatto stesso di percepire, di fare attenzione, è di carattere selettivo: ogni nostra attenzione, ogni nostra fissazione della coscienza, comporta una deliberata omissione di ciò che non interessa>>.
Abbiamo fin qui passato in rassegna tutti i componenti essenziali della nostra vita, gli “atomi esperienziali”.
Abbiamo rilevato che le emozioni non appartengono agli atomi esperienziali: sono piuttosto delle “molecole”, essendo l’insieme di due atomi esperienziali (pensieri e sensazioni).
Ora però dobbiamo concentrarci su un aspetto di questo “teatro” che non abbiamo citato prima, ma non certo perché meno importante: la luce, l’occhio di bue, o fuori di metafora l’attenzione. 
L’attenzione è la capacità della nostra mente di selezionare e soffermarsi su uno o più fenomeni esperienziali. E’ al di fuori dei contenuti dell’esperienza in quanto ne è il regista, o il fotografo che punta l’obiettivo in un punto preciso di un vasto panorama.
I meccanismi neurali che soggiacciono all’attenzione sono complessi, e strettamente collegati ai meccanismi che regolano sonno e veglia. 
Da un punto di vista interiorista l’attenzione è semplicemente la nostra facoltà di scegliere e mantenere un oggetto come centro della nostra stessa esperienza istantanea.. È intuitivo capire che l’attenzione, quando non è automatica, è conseguenza di un pensiero volitivo precedente.
Quando prestiamo attenzione a qualcosa, nella nostra mente sono presenti contemporaneamente due tipi di fenomeni: l'oggetto su cui ci concentriamo (che con una terminologia usata da Lloyd Morgan prima e da William James poi (6) possiamo definire oggetto focale) e gli oggetti di sfondo: ossia l'insieme di quei fenomeni- comprendenti i pensieri e tutti e 5 i sensi- che non sono desiderati dalla nostra volontà istantanea, ma rimangono sullo sfondo, colorando come una colonna sonora la nostra esperienza del momento oppure completando attraverso comportamenti automatici la nostra attività del momento. Essi sono stati chiamati da Morgan "oggetti marginali", ma qui useremo il termine "oggetti di sfondo".
Se guardando un film diciamo: "Questa scena mi ha commosso" intendiamo dire: “la percezione della scena (oggetto focale) era accompagnata da alcuni oggetti di sfondo, e fra questi vi erano le sensazioni e i pensieri che vengono "letti" dalla mia mente come “commozione”
Ora: se lo sguardo dell'osservatore non si limita alla scena del film ma decide di osservare contemporaneamente sia la scena sia le proprie sensazioni interiori, ecco che le percezioni e i pensieri legati alla commozione divengono anch'essi "oggetto focale", ed è possibile conservare una certa distanza e lucidità rispetto a queste percezioni, divenendo "osservatori non commossi della commozione".
Matthieu Ricard si è espresso più o meno così (cito a memoria avendo smarrito la fonte): "La mente che guarda la tristezza non è triste, la mente che guarda la rabbia non è arrabbiata".
Questo schema è sicuramente un modello semplificato: l’attenzione molto spesso oscilla continuamente dall’oggetto focale agli oggetti di sfondo e ciò che rende “focale” un oggetto potrebbe essere semplicemente la maggior quantità di istanti trascorsi “su di lui”. 
Si tratta quindi solo di un modello pragmatico, e non della verità neurologica.
Per concludere osserviamo che l’attenzione non fa parte degli atomi esperienziali, ma piuttosto di quelli che definiremo come “poteri”.

I POTERI
Anche se abbiamo classificato attraverso gli otto atomi ogni fenomeno del nostro mondo mentale, è necessario precisare il modo in cui questi atomi possono interagire fra loro: quali sono le connessioni fra gli atomi? Come possono i pensieri influire sulle sensazioni, i ricordi agire sui pensieri, etc? 
Le interazioni sono molteplici ed estremamente complesse.
Qui citeremo senza ulteriore analisi i nostri “poteri”, cioè le relazioni causali tra un pensiero volitivo e le eventuali modifiche del mondo mentale connesse a tale pensiero.
Osservando direttamente la mia esperienza osservo che i poteri sono di cinque tipi:
Potere attentivo (l’attenzione)
Potere mnemonico (lo esercitiamo tutte le volte che al desiderio di evocare un fenomeno del passato appaiono alla mente i ricordi sensoriali e cognitivi adeguati a tale desiderio)
Potere evocativo (quando  al desiderio di immaginare un fenomeno non verificatosi in passato appaiono alla mente le conseguenti immaginazioni sensoriali)
Potere motorio (tutte le volte che desidero attuare un movimento corporeo e tale movimento si compie)
Potere analitico (l’applicazione delle leggi della logica ai fenomeni; anche se poi le leggi della logica forse non sono altro che astrazioni dalle regolarità osservate nell’esperienza, cioè rielaborazioni dei propri ricordi: il potere analitico sarebbe quindi un sottoinsieme del potere mnemonico ma su questo punto mi riservo di riflettere meglio in contributi futuri).



LA COSCIENZA 

La parola “coscienza” è un esempio di quei termini che vengono usati con accezioni mobili e diversificate, al punto di spingerci a valutare la scelta di eliminare il termine dalle discussioni: data l’esistenza degli atomi esperienziali e dei poteri, è necessario definire anche la funzione “coscienza”? Non bastano gli elementi citati per descrivere ogni aspetto basilare dell’esperienza umana?
Per ponderare questa ipotesi immaginiamo la differenza tra una persona cosciente e una incosciente: che cosa le distingue? Pensiamo a tre situazioni esemplificative: 
1)Se la persona può interagire col mondo esterno (non è paralizzata) allora il suo essere cosciente è valutabile con la sua capacità di rispondere finalisticamente a stimoli ricevuti, benché non si esaurisca in questo, ma comprenda anche la facoltà di percepire e ricordare i propri fenomeni interiori (sogni, sensazioni, pensieri...). Quindi rispetto all’incosciente la persona cosciente ha tre facoltà fondamentali: percepisce, ricorda, interagisce.
2)se è completamente paralizzata (come nei pazienti locked-in o nei pazienti erroneamente curarizzati senza adeguata anestesia generale) il vissuto della persona sarà un flusso di pensieri e di materiale dei cinque sensi. La persona cosciente e paralizzata pertanto percepisce e ricorda, senza interagire (i “locked-in” comunicano solo con gli occhi). Da studi sulla distinzione fra stato vegetativo e stato “di coscienza minimale” emerge che un paziente con danno cerebrale severo può essere totalmente privo di interazioni col mondo ma avere ancora pensieri, percezioni e volizioni (8), e perfino qualche “potere”.
 3)In totale assenza di funzioni mnemoniche, come forse avviene in una demenza molto avanzata, tale “flusso” non sarà affatto simile allo “stream of consciousness” joyciano (7) perché i monologhi interiori anche più sconnessi prevedono la memoria: senza alcun ricordo percepito ogni fenomeno sarebbe disgiunto da quello immediatamente precedente e successivo e nessun pensiero sarebbe possibile perché pensare una frase -semplificando molto- implica ricordare ad ogni parola tutte le parole precedenti, e anche il pensiero rapido privo di parole non può sorgere senza materiale depositato in memoria. Ma è davvero possibile percepire senza ricordare? Ovviamente sì se manca solo la memoria a medio e lungo termine: ciò succede tutti i giorni. Ma se mancasse anche la possibilità di memoria a brevissimo termine? In questo caso si tratterebbe di un flusso di fenomeni sensoriali con scarsa o nulla possibilità di pensiero, ma forse anche in questo flusso, difficile da immaginare (che  nessuno potrebbe testimoniare e che il soggetto non potrebbe testimoniare neppure a se stesso) vi è l’embrione di ciò che tendiamo a chiamare coscienza. Quasi al limite della nostra idea tradizionale di percezione, in cui vi è un soggetto e un oggetto di percezione, qui, nell’uomo totalmente privo di memoria, sembrano apparire solo fenomeni, svincolati da un’organizzazione mentale catalogante. 
A noi la decisione, si tratta solo di una convenzione, se chiamare anche questo “coscienza”: io sono per il sì, per motivi pratici, dato che vanno considerati esseri senzienti e fratelli senza alcuna esitazione anche gli sventurati che smarriscono quasi del tutto i propri ricordi, e chiamarli “privi di coscienza” o “dotati di coscienza minimale” potrebbe portare a delle aberrazioni.
Questi ultimi soggetti sono casi limite, forse solo immaginari perché è indimostrabile una perdita totale di ogni forma di memoria. Essi qualora esistessero, percepirebbero senza ricordare e senza interagire.
Insomma sembra che il minimo comun denominatore delle situazioni di coscienza descritte sia il fatto di percepire: faremo dunque in modo che nella nostra definizione una singola percezione sia sufficiente a diagnosticare la presenza di coscienza, almeno istantanea. 
Percorrendo mentalmente gli esempi citati e gli ovvi esempi di assenza della coscienza, troviamo che è sufficiente la presenza di un solo atomo esperienziale per far sì che si possa parlare di coscienza.
Dunque il nostro rasoio di Occam sembra suggerire questa equivalenza:
Coscienza = “Presenza di almeno un atomo esperienziale”.

Con questo piccolo “manifesto terminologico” mi auguro di ispirare e invogliare gli studiosi e i clinici ad approfondire gli aspetti soggettivi della coscienza, che possono essere indagati mediante pratiche come la meditazione e il training autogeno. Una corretta definizione di tutti gli elementi del proprio vissuto è alla base di ogni ricerca filosofica razionale. Può essere che partendo da questi provvisori postulati si arrivi a comprendere la necessità di ampliarli o modificarli, ma credo possano essere un buon punto di partenza.
Un’ultima precisazione si rende necessaria ora che tale discorso è impostato: la mia ricerca attuale (in attesa di conferme da altri ricercatori) mi permette di unificare il gusto e l’olfatto  alle sensazioni corporee (essendo dal punto di vista delle definizioni di cui sopra indistinguibili) e di unificare, per quanto visto nei paragrafi dedicati, i ricordi alle immaginazioni sensoriali.
Gli atomi mentali sono pertanto in un’analisi più approfondita non otto ma cinque: vista, udito, sensazioni corporee,pensieri, e “fantasmi” (o tracce mnestico-immaginifiche).

         Davide Corvi, 4/4/2020


BIBLIOGRAFIA:
1)Balboni,  ANATOMIA UMANA, edi-ermes 1987, volume 3
2)Hume, TRATTATO SULLA NATURA UMANA
3)BODILY MAPS OF EMOTIONS, Proceedings of The National Academy of Science  January 14, 2014 111 (2) 646-651(Lauri Nummenmaaa,b,c,1, Enrico Glereana, Riitta Harib,1, and Jari K. Hietanend)
4)N. Tesla, LE MIE INVENZIONI Autobiografia di un genio   La mala parte
5) J.L.Borges, DISCUSSIONE Tutte le opere, Mondadori
6)W.James, DISCORSO AGLI INSEGNANTI E AGLI STUDENTI SULLA PSICOLOGIA E SU ALCUNI IDEALI DI VITA
7)J.Joyce, ULYSSES
8) Owen AM, et al. Science. 2006, DETECTING AWARENESS IN THE VEGETATIVE STATE
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